La sentenza della III sez. CASSAZIONE PENALE del 28.11.2011 N° 44065, sicuramente, affronta forse uno degli argomenti più detestabili che riguardano Internet con tutte le sue indubbie potenzialità positive, vale a dire la configurazione di atteggiamenti pedopornografici on line realizzati attraverso l’utilizzo di programmi per il peer to peer. Il caso in esame riguarda un imputato ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 600-ter, terzo comma, c.p. per avere divulgato, mettendo a disposizione degli altri utenti del web, materiale pornografico prodotto con protagonisti minori degli anni 18, permettendo in tal modo a chiunque fosse in quel momento collegato al servizio di file sharing di scaricare l’anzidetto materiale pedopornografico. Il file sharing, che letteralmente significa “condivisione di file”,   si realizza effettivamente attraverso una generale messa a disposizione vicendevole da parte degli utenti che si collegano ad un determinato server, di files presenti in una determinata cartella del loro disco fisso. Questi files, di conseguenza, vengono scambiati tra gli utenti che si connettono, tramite apposito programma, a tale sistema. Il più famoso, anche se ormai obsoleto, programma di file sharing è stato  Napster, le cui esperienze giudiziarie sono ben note, per il pesante intervento delle case discografiche a tutela dei loro presunti diritti. Ad oggi però occorre evidenziare che dopo questo primordiale programma sono sorti tanti altri sistemi che si fondano sulla stessa tecnologia come: Vuze, Ultratorrent, Bittorrent, Utorrent, WinMX, Morpheus, Gnutella, Aimster, Netbrilliant, Imesh, Scour Exchange, Wrapster. Questi sistemi sono molto più evoluti e permettono di condividere non solo file musicali, ma qualsiasi tipo di file. Il fatto è, che allo stato attuale, risulta difficilissimo controllare tutte queste reti peer to peer, anche se, a dire di alcuni (lobby che avrebbero interesse a limitare questo libero scambio), questo particolare meccanismo di condivisione avrebbe la caratteristica di eludere le legislazioni nazionali e di rendere difficile il concreto accertamento di reati, sempre che ve ne siano. Queste difficoltà probatorie, appena enunciate, sarebbero state poste a fondamento delle motivazioni difensive dell’imputato che, nel caso de quo, contestava sul punto la validità ed attendibilità degli elementi probatori raccolti dagli inquirenti, come l’individuazione del nickname, della cartella di condivisione contenente l’immagine incriminata ed il reperimento di immagini pedopornografiche nella memoria del computer. Quest’ultimo fatto, avvenuto successivamente, nell’ambito di una operazione di perquisizione, presso l’abitazione dell’imputato. Tali obiezioni, però, non hanno pienamente convinto i giudici romani che hanno ritenuto la coerenza e validità degli elementi probatori raccolti decisivi ai fini di una sentenza di condanna.

La Suprema Corte, ha comunque accolto quanto sostenuto dalla difesa in merito alla carenza di prove circa l’esistenza dell’elemento psicologico del reato contestato e cioè dell’art. 600-ter del c.p. (pornografia minorile), riconoscendo giustamente che ai fini della configurabilità del dolo, richiesto dalla normativa richiamata, è necessario che il soggetto abbia avuto, non solo la volontà di procurarsi materiale pedopornografico, ma anche la specifica volontà di distribuirlo, divulgarlo, diffonderlo o pubblicizzarlo, ciò deve poter essere desumibile da elementi specifici ed ulteriori rispetto al mero uso di un programma di file sharing. Appunto tale quid pluris sostanziale non era stato acquisito. Rimarrebbe sussistente, quindi, solo il reato di detenzione di materiale pedopornografico, poiché l’imputato si è consapevolmente procurato l’immagine ed ha consapevolmente detenuto file di tal genere. Pertanto, la Cassazione, non ha potuto far altro che annullare la sentenza impugnata con rinvio, limitatamente alla determinazione della pena applicabile.