Con la sentenza 24084/17 la prima sezione penale della Corte di Cassazione si è pronunciata nuovamente sulle scriminanti culturali nell’ordinamento italiano.
Il caso era quello di un indiano sikh imputato del reato ex art. 4 l 110/75 “perché portava fuori dalla propria abitazione senza un giustificato motivo, un coltello della lunghezza complessiva di cm 18, 5 idoneo all’offesa per le sue caratteristiche”.
L’indiano era stato trovato dalla polizia all’interno di un locale pubblico con un coltello attaccato alla cintura, ma si era rifiutato di consegnarlo adducendo che tale condotta era imposta dalla sua religione trattandosi di un indiano “sikh”.
Il Giudice di merito condannava l’imputato ritenendo che, le usanze religiose integrino una mera consuetudine della cultura e non abbiano invece effetto abrogativo della norma penale con finalità di pubblica sicurezza.
L’imputato ricorreva sostenendo che il porto del coltello kirpan per motivo religioso fosse tutelato dall’art 19 Cost. così come il turbante trattandosi di simboli religiosi il cui porto costituisce adempimento del dovere religioso.
La Cassazione ha confermato l’orientamento che attribuisce rilevanza alle scriminanti culturali: “in una società multietnica la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbano riconoscere. Se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura d’origine, in previsione con l’art. 2 Cost., che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante. E’ quindi essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori con quelli del mondo occidentale in cui ha liberamente scelto di inserirsi e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina. La decisione di stabilirsi in una società in cui è noto che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante…nessun ostacolo viene in tal modo posto alla libertà di religione, al libero esercizio del culto e all’osservanza dei riti che non si rivelino contrari al buon costume. Proprio la libertà religiosa, garantita dall’art. 19 Cost. incontra i limiti stabiliti dalla legislazione in vista della tutela di altre esigenze tra cui quelle della pacifica convivenza e della sicurezza, compendiate nella formula dell’ordine pubblico”.
Concludendo la Corte, alla luce dell’art. 4 l. 110/75, va affermato il principio per cui nessun credo religioso può legittimare il porto in luogo pubblico di armi o oggetti atti ad offendere.