1. Premessa e rilievo del caso
Con ordinanza del 28 aprile 2025, il Tribunale di Milano – Ufficio GIP ha rigettato parzialmente una richiesta di archiviazione formulata dal Pubblico Ministero in un procedimento per diffamazione telematica a carico di ignoti e noti autori di messaggi offensivi pubblicati sui social nei confronti di una Senatrice a vita. La pronuncia assume rilievo sia per i contenuti sostanziali, in merito alla natura offensiva dell’epiteto “nazista”, sia per i profili processuali, in relazione ai poteri del GIP in sede di controllo sulle richieste di archiviazione.
2. I fatti
Il procedimento nasce da 27 querele relative a 246 messaggi diffamatori diffusi su piattaforme come Facebook, Instagram, Twitter e Telegram. Il PM ha chiesto l’archiviazione per:
- alcuni messaggi ritenuti semplicemente offensivi, ma non diffamatori;
- altri post di cui non è stato possibile identificare l’autore per mancata cooperazione degli ISP esteri.
Il GIP ha invece ritenuto doveroso distinguere le ipotesi e ha ordinato:
- l’archiviazione per i casi in cui l’autore sia ignoto e non rintracciabile;
- ulteriori indagini dove vi siano margini per l’identificazione dell’autore;
- formulazione dell’imputazione per i casi in cui l’autore sia noto e il messaggio superi i limiti del diritto di critica.
3. Il significato lesivo del termine “nazista”
Il punto centrale dell’ordinanza riguarda la qualificazione dell’espressione “nazista”, utilizzata in alcuni messaggi per colpire la persona offesa. Il giudice sottolinea che tale termine non può essere giustificato come manifestazione di pensiero critico nell’ambito del dibattito democratico, ma costituisce invece una gravissima offesa alla reputazione, in quanto rappresenta una negazione della verità storica e un insulto alla memoria dell’Olocausto. Per tale ragione, l’uso di tale epiteto eccede i limiti del diritto di critica e si configura come pienamente diffamatorio.
4. Il web non è zona franca: poteri del GIP e mezzi investigativi
Il giudice, pur rispettando i limiti derivanti dalla giurisprudenza della Cassazione (Cass. Sez. Un., 28.11.2013, n. 4319), sottolinea che il web non può essere una zona franca dell’offesa impunita. Pertanto, ha disposto che siano acquisite tutte le informazioni personali reperibili dai profili social degli autori dei post, unitamente ai dati di traffico telematico, al fine di associare con ragionevole certezza un contenuto offensivo all’effettivo autore materiale.
L’acquisizione di tali dati è considerata necessaria per superare l’anonimato dell’ambiente virtuale e garantire un’effettiva tutela dell’onore e della reputazione, anche nello spazio digitale. Rimane tuttavia non percorribile la strada delle rogatorie internazionali, dato che gli Stati Uniti (sede di molti ISP) non prestano cooperazione in materia di reati di diffamazione, invocando le tutele del Primo Emendamento della Costituzione americana.
5. Profili critici: identificazione certa e garanzie difensive
Pur riaffermando la necessità di tutelare la reputazione anche online, il GIP evidenzia un profilo critico: la difficoltà nell’attribuire con certezza il messaggio al soggetto titolare del profilo o dell’IP. L’identificazione deve fondarsi su più elementi convergenti (dati anagrafici, abitudini d’uso, traffico di rete), evitando scorciatoie probatorie che ledano il diritto di difesa.
In particolare, la sola titolarità di un profilo social o di un IP non basta: bisogna dimostrare che quella persona, in quel momento, ha effettivamente pubblicato il messaggio, escludendo ogni plausibile alternativa (uso da parte di terzi, falsi profili, spoofing, ecc.).
6. Conclusioni
L’ordinanza del Tribunale di Milano rappresenta un importante esempio di affermazione del principio di responsabilità nel cyberspazio, ribadendo che la libertà di espressione non può mai degenerare in insulto e che l’anonimato online non deve diventare uno scudo per l’impunità. Allo stesso tempo, essa richiama il dovere delle autorità di garantire che l’identificazione dell’autore avvenga nel rispetto del principio di ragionevole certezza, a tutela anche dei diritti dell’indagato.