La recente sentenza del Tribunale di Vicenza, n. 1342 del 26 giugno 2020, rappresenta il naturale approdo dell’evoluzione culturale ed ordinamentale in materia di riconoscimento del diritto all’identità di genere, sub specie del diritto all’identità personale, come tale incluso fra i diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU).
Fino al non risalente 2015 la giurisprudenza di merito maggioritaria riteneva necessario l’intervento chirurgico (cfr. App. Bologna, 20 marzo 2013; Trib. Salerno, 1 giugno 2010; Trib. Vercelli, 12 dicembre 2014; Trib. Roma, 18 luglio 2014 e 7 novembre 2014; Trib. Brescia, 15 ottobre 2004), anche se talvolta si è assistito ad una maggiore apertura verso la possibilità di una modifica anagrafica in assenza dell’intervento sui caratteri sessuali primari, sia pure spesso in ragione di alcune peculiari circostanze (come, ad esempio, qualora motivi di salute rendessero l’intervento non consigliabile: ex multiis, v. Trib. Roma, 18 ottobre 1997; Trib. Roma, 22 marzo 2011, n. 5896; Trib. Rovereto, 3 maggio 2013; Trib. Roma, 6 agosto 2013, 11 febbraio 2014 e recentemente 31 maggio 2016; Trib. Siena 12 giugno 2013; Trib. Napoli, 16 maggio 2014, n. 24; Trib. Grosseto, n. 1206 del 2015; recentemente Trib. Bologna n. 450 del 2016).
È nel luglio del 2015 che la Cassazione, per la prima volta, ritiene possibile che il percorso di modifica anagrafica possa definirsi senza l’effettuazione dell’intervento chirurgico, in quanto non sempre essenziale: la rimozione dei caratteri sessuali primari, infatti, può svilire l’integrità psico-fisica della persona, cuore dello sviluppo della personalità individuale e sociale, rispetto alla certezza delle relazioni giuridiche (Cass., Sez. I, 20 luglio 2015, n. 15138).
Viene così data alla Legge 164/1982 (“Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”) una interpretazione costituzionalmente orientata, cui, appena qualche mese dopo (ottobre 2015), si è allineata la Consulta, con la pronuncia n. 22120, riprendendo sostanzialmente le posizioni della sentenza della Cassazione sopra richiamata.
Questo mutamento di prospettiva sancito formalmente dalla Cassazione, accolto dalla Corte Costituzionale e già fatto proprio dalla CEDU, fa leva anche sull’assenza di un riferimento testuale riguardo alle modalità chirurgiche attraverso le quali realizzare la rettificazione del sesso, ritenendo l’intervento di rimozione dei caratteri sessuali primari una mera possibilità. Il ricorso alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali ha una funzione di garanzia del diritto alla salute laddove sia vocato a consentire alla persona di raggiungere uno stabile equilibrio psico-fisico, in particolare in quei casi nei quali la divergenza tra il sesso anatomico e la psicosessualità causi un atteggiamento conflittuale e di rifiuto della propria morfologia anatomica.
La prevalenza della tutela della salute dell’individuo sulla corrispondenza fra sesso anatomico e sesso anagrafico porta a ritenere il trattamento chirurgico non quale prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione, ma come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico.
Per ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile, pertanto, deve ritenersi non obbligatorio l’intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari.
L’acquisizione di una nuova identità di genere può essere, infatti, il frutto di un processo individuale che non postula la necessità di una modificazione anche nei suddetti caratteri fisici, purché l’univocità del percorso scelto e la compiutezza dell’approdo finale sia oggetto, ove necessario, di accertamento tecnico in sede giudiziale.