Ciò è quanto statuito dagli Ermellini nella recentissima sentenza n. 22639 dell’8.11.2016, che ha sostanzialmente ricalcato le motivazioni della di poco precedente sentenza n. 6209 del 31.03.2016 di provenienza della stessa Corte, stessa sezione III civile.

Il medico, secondo i giudici del Palazzaccio, ha l’obbligo precipuo di verificare completezza ed esattezza del contenuto della cartella clinica del paziente, pena l’elevazione di responsabilità tout-court a proprio carico, od a carico della struttura sanitaria presso cui svolge la propria attività professionale.

La lacunosità del fascicolo che viene associato al paziente e che deve seguirlo ed attestarne tutto l’iter terapeutico, pre, durante e (in certi casi) post-ricovero, infatti, non può giovare ai medici e/o alla struttura sanitaria convenuta senza stravolgere il sistema garantista nei confronti del soggetto danneggiato;  all’opposto l’incompletezza della cartella clinica deve favorire il paziente che agisce in giudizio per vedere risarcito il proprio danno.

D’altronde una pronuncia in senso contrario, oltre ad elidere qualsiasi minima tutela nei confronti di soggetti danneggiati – quali sono i pazienti che hanno subito danni da attività medica connotata da imperizia –, soggetti che avrebbero in tal modo (in assenza di elementi sufficienti) difficoltà incolmabili a dimostrare e così provare l’errore medico, si sarebbe rivelata un dictat che avrebbe verosimilmente favorito il proliferare di una prassi sanitaria intenzionalmente lacunosa e imprecisa ogniqualvolta gli operatori sanitari si fossero trovati dinanzi a casi di facile errore medico; ma non solo, nel lungo termine, con buona probabilità, si sarebbe risolta in una prassi generalizzata volta ad evitare alla radice qualsiasi sfumatura di errore e così di responsabilità.

In particolare il Giudice di Legittimità, sulla scia del proprio consolidato orientamento (cfr. Cass. Civ, Sez. III, 27.04.2010 n. 10060; Cass. Civ., Sez. III, 26.01.2010 n. 1538; Cass. Civ., Sez.  III, 05.07.2004 n. 12273; Cass. Civ., Sez. III, 21.07.2003 n. 11316), esplicita come l’incompletezza della cartella clinica generi una prova presuntiva del nesso causale a sfavore del sanitario convenuto, qualora la condotta dello stesso sia astrattamente idonea a cagionare il danno.

A ben vedere, la detta regola è una esplicitazione diretta del riparto probatorio assodato nel nostro sistema, la cui ratio si fonda sul principio della cd. prossimità o vicinanza della prova – ovverosia sulla regola di matrice giurisprudenziale che fa gravare l’onere probatorio sulla parte prossima alla fonte di prova –, infatti:

–     all’attore/paziente danneggiato basterà “allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato” (precisando la condotta e/o l’omissione del medico che ha astrattamente cagionato il danno);

–     il convenuto (medico e/o struttura) dovrà, invece, dimostrare “o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante” (ciò attraverso l’esibizione di una cartella clinica completa che faccia luce su tutti i vari passaggi dell’attività medica svolta).

L’eventuale incompletezza della cartella clinica comporterà, come ravvisato dalla Cassazione, in primo luogo uno specifico inadempimento dei sanitari, per difetto di diligenza ex art. 1176 cod. civ.., in secondo luogo, a livello probatorio, tale deficit di compilazione, non potendo risolversi in un vulnus per il paziente, legittimerà il ricorso alla prova presuntiva, ritenendo pertanto non integrata dal sanitario e/o dalla struttura la prova liberatoria ad essi prescritta da legge e giurisprudenza.