La Cassazione penale sez. II 36180/21 ha statuito che l’immissione nel mercato di beni proventi di furto con la vendita a terze persone integra una “attività economica” quindi ove realizzata dall’autore del furto, è idonea a configurare la condotta di autoriciclaggio.

Il Tribunale del riesame di Brescia confermava l’ordinanza che aveva applicato alla ricorrente la misura di custodia cautelare in carcere, ma escludeva la gravità indiziaria per il reato di autoriciclaggio.

Veniva contestato all’imputata di aver venduto dei gioielli rubati ad un compro oro, ricavandone il prezzo.

Avverso all’ordinanza del riesame il PM proponeva ricorso per Cassazione deducendo la violazione di legge perché l’attività di vendita di gioielli rubati costituirebbe una condotta di impiego in attività economiche dunque riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 648 ter comma 1 cp.

La Cassazione ha accolto il ricorso premettendo che “la condotta dissimulatoria deve essere successiva al perfezionamento del delitto presupposto e quindi non può coincidere con l’elemento materiale del reato”, ed ha proseguito statuendo che: “l’ipotesi di non punibilità di cui all’art. 648 ter 1 cp è integrata soltanto nel caso in cui l’agente utilizzi o goda dei beni proventi del delitto presupposto in modo diretto e senza compiere su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa, e da ultimo la vendita trasforma il bene in denaro integrando sicuramente un attività economica che produce reddito. Dunque l’immissione in mercato di beni proventi di furto integra un attività economica che quando è posta in essere dall’autore del furto è idonea a configurare la condotta di autoriciclaggio.