Sapere sviluppare una nuova prospettiva sullo stato attuale delle cose è uno dei più grandi vantaggi competitivi che una azienda, o un sistema organizzato che sia, possa avere.
(Michael Porter)

Quest’opera di ricognizione su noi stessi, sulle nostre realtà imprenditoriali appare drammaticamente urgente in un sistema economico, il nostro, che tende, spesso, ad identificare il “lavorare” solo ed esclusivamente con l’azione, con l’implementazione e l’esecuzione relegando la riflessione e l’elaborazione ad uno spazio incerto ed indefinito che si muove tra il “lusso” ed il “fastidio”.

Quando poi fattori esterni non controllabili si inseriscono nella catena faticosa ma rassicurante di un agire consolidato e familiare in quanto si completa, tutto, sotto i nostri occhi, appagante perché in grado di fornirci un “feed-back” quasi immediato del nostro impegno, alterandolo e sovvertendolo, il fastidio si tramuta presto in ansia ed altrettanto velocemente in panico.

La prima reazione, naturale e comprensibile, al modificarsi dello stato delle cose, al cambiamento di quella “narrazione” che ci vede posizionati nel mondo con un ruolo ben preciso, con un valore altrettanto riconosciuto apprezzato e pagato, è quella di andare alla ricerca non tanto della causa, ma del “colpevole” dello sconvolgimento.

Altrettanto naturale è la tendenza a ricercare un “capo di imputazione” preciso, ben identificabile e definito così che una volta rimosso, una volta tolto l’inceppo, la catena potrà ricominciare a girare esattamente come prima riconfermando non solo la validità del nostro operare ma, anche e soprattutto, di quella visione delle cose che a quell’operare conferisce un senso ed una dignità.

Che l’analisi strategica, che la riflessione “filosofica”, non siano un “lusso” e non possano nemmeno essere un “fastidio” ma siano, invece, i fattori di utilità più diretta che si possano avere oggi è dimostrato dai numeri e dalle “cose”. Cose molto vicine e a noi, come le scarpe e le torte non esattamente concetti astratti da intellettuale o soluzioni tecnologiche avanzate che, per dettato divino, sembrano poter nascere solo nella Silicon Valley.

Se la nostra cucina domina, indiscussa, la “global food chain” tanto a livello di valore percepito che in termini di “pietanze” italiane preparate e servite nei ristoranti di tutto il globo, (The Economist, Which Countries dominate the Dinner Table?), imponendosi per il suo valore “culturale”, (Journal Of Cultural Economics, Dining Out As Cultural Trade), il valore del nostro “export”, misurato in termini “classici”, è molto lontano da qualsiasi pretesa di “dominio assoluto”, staccato di molte posizioni tanto dalla Germania che dalla Spagna che, sicuramente, secondo la nostra personale ed imperitura “narrazione” non solo non potrebbero competere ma non dovrebbero nemmeno “osare” farlo. E tanto più grandi sono le dimensioni delle imprese per numero di addetti tanto maggiore è il divario a favore dello “straniero”, (The Economist, Export or Die!) che non solo “osa” ma agisce ed implementa surclassandoci anche su quello che è più “nostro”: la Germania è il primo produttore di gelato nell’eurozona e la Francia è il primo esportatore (Sky TG 24 Economia)

E così, se nel 2011 l’espressione vivente della tradizione calzaturiera italiana, Ferruccio Ferragamo, si diceva assolutamente confidente sul successo non solo del Made in Italy ma del più specifico Made in Florence sul mercato cinese (FT, The Real Value of Made in Italy), dobbiamo scoprire che, una decade dopo, quelle promesse non si sono compiute e sono, oggi, riportate a terra da una realtà fatta di numeri assai intellegibili, drammaticamente comprensibili, che ci comunicano un export sul mercato asiatico “inchiodato” all’1,2 per cento dell’intera produzione del nostro comparto calzaturiero (Sole 24 Ore, Made in Italy Scontro sui 20 mila Marchi Clonati da Imprese Cinesi) che non riesce a capitalizzare la propria secolare tradizione su quel segmento del mercato che prende, simpaticamente, il nome di HENRYs, (High Earners Not Rich Yet, Global Powers Of Luxury Good, Deloitte Report 2019), ovvero quella classe di giovani consumatori, con una età media di 43 anni, che forti di una capacità di spesa variabile tra i 100 ed i 150 mila dollari anno, rappresenta il più grande mercato per il lusso che sia mai “sceso” sul pianeta terra.

Cosa non ha funzionato? Dove si è inceppata la catena di trasmissione del valore? Quando abbiamo smesso di cercare un nuovo angolo di visuale per acquisire, inventare, rinnovare la nostra narrazione nel mondo? Quando abbiamo definitivamente escluso la possibilità/necessità di “aggiornare” il modello di business e di ignorare i dati che già da tempo ci lanciavano segnali inequivocabili e trasversali a pressoché tutti i settori industriali, dalle moto Ducati alle pompe ad alta pressione di Interpump (FT, Italy’s manufacturers find small is not good anymore) per finire alle torte ed ai cantucci di Corsini di Castel del Piano, senza lasciare fuori il nostro sistema bancario (FT, Italian Banks: small is not beautiful).

Mantenendo, per una volta, un sano equilibrio tra gli estremi di un movimento pendolare che ci ha visto oscillare tra una esterofilia assoluta ed il suo esatto contrario, a seconda dei momenti storici e della parte politica destinataria delle critiche o degli elogi, non possiamo non raccontarci di aver voluto ignorare, e lo stiamo continuando a fare, quei fattori di criticità che lo straniero ci faceva gentilmente notare nel lontano, lontanissimo 2005 (The Economist, Italy the real sick man of Europe).

La mancanza di un consolidamento della fatidica e frastagliata spina dorsale produttiva del Paese e del suo altrettanto parcellizzato compendio bancario, la genialità e la caparbietà di una generazione di fondatori che si trasforma in pura e semplice ostinazione e “protezione” della propria storia e narrazione, un vigore creativo ed una pretesa, intrisa nel DNA, di libertà gestionale che spesso tracima nella più assoluta autoreferenzialità ed esclusione sistemica di qualsiasi tipologia di “accountability” sulla base dell’assunto che la titolarità esclusiva, o a larghissima maggioranza, dei fattori di produzione coincida con un parimenti naturale “dono” di “business judgement”, il desidero di autonomia ed indipendenza sostenuto e pagato, letteralmente, con credito a breve, spesso brevissimo termine ed a diretto ed immediato discapito della capacità di reinvestire e capitalizzare, formare maestranze e management ed espandersi in maniera strategica e credibile sui mercati esteri, non ce le dovevamo far certo raccontare dagli inglesi (Economist, Italian Spa offer an object lesson in corporate decline).

Erano tutti fattori di “inceppo” che conoscevamo già molto bene ma, del resto, se fosse così facile acquisire una nuova visione di sé, se fosse così indolore costruire una nuova narrazione del nostro ruolo nel mondo, non si sarebbe scomodato di certo M. Porter a dirci che, proprio lì, risiede una capacità fondamentale di generare un vantaggio competitivo veramente differenziale.

La nuova narrazione per ricollocarci sul mercato globale dovrà assumere toni e contenuti spesso radicalmente opposti a quelli che hanno caratterizzato, e ancora caratterizzano, quella attuale e che dovrà passare, in primis, dalla nota ma sempre insoddisfatta, capacità di “fare sistema” o, per usare un termine più pregnante ed evocativo, per una ritrovata “coralità” dei nostri attori economici tanto a livello verticale che trasversale trovando, scoprendo e, perché no, inventando nuovi criteri di associazione, di condivisione e di narrazione di quel valore sotteso e comune che passa sotto il nome di Heritage, di tradizione, che siamo così inclini a vedere e valorizzare solo nella prospettiva del singolo operatore per paura, sembrerebbe, che il marciare sotto la stessa bandiera possa diluire la nostra identità e compromettere il valore dei nostri prodotti.

È, invece, proprio quel patrimonio comune ed immateriale, fatto di una storia ormai secolare, che connota, distingue, rende unico ed inarrivabile il genio creativo di imprenditori che, nelle loro unicità, nelle loro distinte ed inconfondibili identità, sono tanto beneficiari quanto contributori di un sistema valoriale che da sempre, ma oggi più che mai, ha costituito e dovrà costituire l’asse competitivo sul quale andare a vincere le sfide del futuro.

L’altro cambio di prospettiva ce lo sottolineano due stranieri che conoscano bene il nostro Paese e che, incredibilmente, ne hanno saputo valorizzare proprio quel valore intangibile e non replicabile al quale noi, a tutti i livelli, abbiamo prestato così poca attenzione.

John Rupert, gran patron del conglomerato del lusso Richemont, ci sorpassa per visione ed implementazione realizzando, in collaborazione con un italiano, Franco Cologni, che di “saper fare” se ne intende, la fondazione Michelangelo, motore di un nuovo rinascimento cui spetterà il compito fondamentale di comunicare, narrare, raccontare il sapere artigiano, facendo sentire il silenzio di quel lavoro così prezioso da poter non solo creare un prodotto ma, addirittura, di trasformarlo da “commodity” fungibile a “bene”, a depositario di valore, a compagno di viaggio, souvenir inscalfibile di memorie indelebili, proprio per la qualità che gli riconosciamo di saper conservare e trasferire la genialità creativa di un altro essere umano nella presa di coscienza che anche oggi, soprattutto oggi, la bellezza, è una assoluta necessità che, per non cadere nella “mera poesia” e per mantenere la barra dritta sul “business” è capace di opporsi alla legge di gravità economica del “diminishing returns” (The Utility of Beauty, W.N. Guthrie, The Sewanee Review), mantenendo vivo un valore così forte e distintamente percepito dal consumatore da potersi sottrarre alla guerra del prezzo, al rischio del plagio e della replica che, proprio perché tale, non potrà mai trasmettere le emozioni di un racconto unico che si scandisce attraverso gli oggetti che lo rendono tangibile, fruibile, condivisibile e che, in quanto connotato da un valore aggiunto che non può essere meramente scomposto, rerverse-engineered, nelle sue varie componenti (D.A Langer, O.P. Heil, Luxury, Marketing and Management) non potrà essere riprodotto in nessun altro luogo se non nella sua “culla” d’origine.

L’altro straniero illustre è Bruno Pavlovsky, Direttore Generale di Chanel che brillantemente sintetizza la “concretezza dell’impalpabile”: “per chi costruisce sogni impalpabili dal 1909 lo storytelling, la narrazione è tutto” (Sole 24 Ore, Bruno Pavlovsky: “Lusso e artigianato Made in Italy sono insostituibili).

Il prodotto, i bei materiali, la sapienza artigiana, le storie e le tradizioni secolari non potranno, da soli, creare ispirazione e desiderio se non “traslate”, tradotte, ridisegnate in un percorso narrativo che non potrà prescindere da una fondamentale componente digitale che, ancora, appare molto “sottovalutata” nella sua funzione di “connettore strategico” con un mondo, quello degli HENRYs, che, ormai, media e scherma la realtà con l’interfaccia tecnologica in qualsiasi frangente della vita (D.A Langer, Why Many Western Luxury Brands Can’t Connect With Chinese Customers).

Rimanere prigionieri di una “compiacenza” che ci confina allo spazio fisico e mentale del negozio, che ci racchiude nel perimetro strategico ridottissimo della transazione precludendo così la visuale più ampia e dirompente della creazione di una vera ed autentica relazione con il consumatore, significa, semplicemente, perdere LA chiave di connessione con quello che, indiscutibilmente, si qualifica come il consumatore più resiliente ed ottimista a livello globale, (Mckinsey & Company, The Chinese consumer, resilient and confident), il più “entusiasta” nell’acquisto di beni di lusso come ha dimostrato prima della pandemia sostenendo tutti i grandi brand esteri con il suo turismo, che viene notato solo ora che non c’è più (Sole 24 ore, Solo il ritorno del turismo dall’estero potrà far ripartire il lusso e le sue filiere, Intervista a Leonardo Ferragamo; Sole 24 Ore, Non rinunciamo al turismo cinese, intervista al presidente dell’ Enit) e come sta dimostrando, ancora oggi, con una spesa domestica così poderosa da meritarsi l’appellativo di “vendicativa” (Hermès Sells $2.7 Million at Guangzhou Store in One Day, Jing Daily, 14 Aprile 2020).

Coralità dell’azione, digitalizzazione della narrazione, uniti ad un recupero pieno e fiero del rapporto con il territorio, con la sua storia e con la sua cultura, (Journal of historical research in marketing, History as an intangible asset for the Italian fashion business), tracciano i tre punti fermi da cui iniziare un nuovo percorso, un nuovo approccio al mercato cinese, ed in generale ad una nuova “visione” delle cose, che ci permetterà di capitalizzare su di un patrimonio immateriale immenso che, da sempre, impregna e connota la nostra migliore produzione, e certo non solo nel segmento lusso (Il Giornale dell’Arte, Le radici del Made in Italy, un buon prodotto ha radici culturali profonde) e del quale siamo irresponsabilmente non curanti mentre la nostra concorrenza non perde occasione per sbandierare il proprio, erigendolo a vessillo di un’eccellenza comune, inarrivabile per chiunque non ne sia parte per diritto di nascita, segnando, così, una linea di demarcazione che crea tanto più interesse ed attrazione quanto più viene espressa con forza e, diremmo noi, con “spavalderia” commerciale (Jing Travel, The French culture wave sweeping into China) associando, senza riserve, la quintessenza del blasone storico e culturale alla massima espressione di un commercio che si dimostra globale non solo per la capacità di interconnessione spaziale e geografica ma anche, e soprattutto, per il vigore con il quale comprime gli spazi che separano le culture, le storie e le tradizioni (Jing Travel, Louvre Joins Forces with Alibaba to Bring Great Works of Art to Chinese Consumers).

Solo il coraggio necessario per porre in essere quel cambiamento, apparentemente solo “strategico”, tecnico, ma, invece, molto più profondo e personale in quanto irrompente, “disruptive” su un intero modo di lavorare e quindi di vivere, potrà meritare il coraggio e la fiducia dell’altra metà del “sistema”, anch’essa chiamata ad uscire da schemi, da abitudini che, oggi, non “rendono” più, nella accezione più letterale possibile del termine “rendere” giusto per ribadire, ove ve ne fosse bisogno, che nulla è più economicamente concreto del fatidico “pensare diversamente”.

Se il risparmio privato viene “chiamato alle armi” (Corriere Economia, Servono risparmi coraggiosi per uscire dalla crisi) per mobilitare fiumi di liquidità a favore delle nostre PMI, (Sole 24 Ore, Così i PIR alternativi potranno mobilitare miliardi per le PMI), le stesse non potranno sottrarsi ad una nuova riflessione che non potrà essere proiettata solo all’esterno, al mercato, ma dovrà, necessariamente, “perforare” anche il tessuto interno dell’azienda, quell’insieme di legami ed interconnessioni che le rendono dei veri e propri sistemi viventi con caratteristiche e tratti “umani”.

Se i nostri tratti caratteristici sono, da sempre, quelli della genialità, della creatività e di una resilienza che può essere “forgiata” solo da un sistema Paese che condannerebbe a morte qualsiasi altro imprenditore, come la cronaca, tristemente, non manca di ricordarci (FT, Italy struggles to lure foreign investments), è altrettanto vero che, anche in questa zona di orgoglioso “comfort”, c’è spazio per un “upgrade” operativo che va sotto il nome di “governance”, la cui efficacia è ormai così certa da poter essere verificata in termini statistici (Corriere Economia, Board virtuosi del fattore “governance” il 71% della performance delle blue chip di piazza affari è legata al buon governo) ed indicizzabili (Georgia State University, The G-Index, Corporate governance and firm valuation).

Sarà, allora, difficile sottrarsi alle aspettative di una maggiore trasparenza dei processi decisionali adducendo, come “scusa”, la paura di soffocare il “genio” creativo ed istintivo che può vivere e prosperare solo se libero e non imbrigliato da obblighi di “reporting” burocratico.

Le storie di casa nostra ci dimostrano (Corriere Economia, Aziende di Famiglia, un nuovo patto per la borsa), invece, che famiglia e mercato, creatività e modelli di gestione, non solo non sono termini antitetici ma sono aspetti addirittura naturalmente complementari e che, al di là tutti i benefici “tecnici” e finanziari, permettono, quando inseriti in una diversa cornice, una nuova narrazione, un diverso modo di raccontare i propri tratti unici, distintivi, inimitabili che diventeranno ancora più chiari, apprezzati e “remunerati” tanto dagli HENRY’s cinesi che dal risparmio casalingo.