La cultura manageriale, o meglio la mancanza delle stessa, è da sempre, o quasi, stata additata come una delle criticità strutturali che hanno bloccato, o per lo meno frenato la crescita industriale del nostro Bel paese.
Le ragioni normalmente, e forse anche banalmente, snocciolate a guisa di rosario per spiegare e razionalizzare questa strana dicotomia tra imprese che, sotto il profilo dei volumi d’affari e di espansione in mercati esteri si qualificano come “piccole multinazionali” e rimangono invece, sotto il profilo manageriale e gestionale confinate alla dimensione di “bottega”, sono svariate e spaziano dall’analisi economica fino a quella antropologica.
L’italiano, dicitur, non è intrinsecamente avvezzo, compatibile alla struttura organizzata o, per passare dal latino all’inglese, sul presupposto, vedremo presto vacillante, di una equazione che collega la modernità alla seconda e la storia, passata, alla prima, diremmo che l’italiano è impervious to rules.
La regolamentazione, la programmazione si presenterebbero delle caratteristiche ostative, ex se, all’italico modus operandi o MO, come dicono i managers americani facendo, come per miracolo, resuscitare la valenza senza tempo della lingua morta.
Una analisi un poco più elaborata collega il permanere della dimensione artigianale della gestione all’humus in cui l’impresa italiana nasce e si sviluppa, ovvero quella dimensione locale dove i rapporti economici sono dapprima rapporti di famiglia o d’amicizia sica che si tratti di fornitori, piuttosto che dei dipendenti o del parnter bancario. Insomma un presupposto di partenza, sia economico che “umano” lontano anni luce da tutte le prime tre lezioni di economia aziendale di qualsiasi MBA. L’ottimizzazione dell’asset allocation per gli investitori terzi mossi da, e solo da, anch’essa alquanto vacillante, fredda razionalità economica comodamente riproducibile in uno spread sheet che mi faccia vedere quanto varrà domani il dollaro che investo oggi, è agli antipodi della nostra storia economica. Il radicamento, anche nel senso “fisico” del termine, dell’impresa con un determinato territorio, dagli esperti prontamente ribattezzato distretto, è stato additato come ulteriore fattore di blocco in quanto ostacolo alla diversificazione nella sua accezione più ampia.
L’elemento “personale”, ovvero della relazione tra i soggetti privati in quanto tali ancora prima che imprenditori, ovvero uomini economici, ha impedito lo svilupparsi di quella capacità di analisi della “fungibilità efficiente” che permette, permetteva, avrebbe permesso, oggi il dubitativo è d’obbligo, di cambiare, sostituire “swoppare” per citare una delle più orride espressioni della localizzazione del linguaggio globale, fornitori, dipendenti e providers in generale in base a criteri di analisi più asettica e dunque, almeno così sembrava essere, più efficienti, prova ne era, la solita riproducibilità sul foglio di calcolo che poco si prestava ad accogliere invece il valore, o disvalore, della relazione commerciale cum amico.
Fin qui tutto noto.
La novità arriva, come sempre, dall’America solo paese capace di innovare anche riscoprendo il noto, o peggio il vecchio.
In base ad una analisi condotta sulle prime 150 multinazionali mondiali, selezionate in base a diversi, e complessi, criteri di efficienza economica non assolutamente limitata al fatturato, e riprodotta sulle pagine patinate della Harvard Business Rewiew (Rosabeth Moss Kante, The Modern Comapny: flexible, fast and creative, HBR 2009), le multinazionali più performanti sono quelle che, con complesse ed elaborate tecniche di management, sono riuscite nell’intento di affiancare, a volte a sostituire in toto, le tecniche dell’efficienza economica classica, per capire di che si parla basta prendere il programma di un MBA, con dei valori extra-economici come, guarda caso, l’efficienza economica, intrinseca addirittura, della relazione con i fornitori storici e quella derivante da un forte radicamento col territorio!!
Coincidenza, pubblicistica, interessante è poi che il Sole 24 Ore in “Manuale di Navigazione per Piccole Imprese” (Il Sole 24, ML Colledani; L. Naso) tracci la stessa analisi dei più illustri, colleghi americani.
Nel dopo crisi della “inefficienza dei mercati” e del crollo della logicità dell’egoismo intelligente che ha mosso Greenspan a scirvere la sua seconda autobiografia chiedendo pubblicamente scusa per la prima, tutto è possibile. Anche diventare i primi della classe per gli stessi motivi che ci condannavano alla condizione di ripetenti al seguito.
Il nesso di causalità e un poco grossolano, scherzoso e affatto scientifico; ma sicuramente c’è del vero. A noi professionisti saper prendere il meglio dei difetti storici della nostra economia e trasformarli in un competitive edge che sarà sicuramente difficile da clonare e riprodurre in Cina.