Il motociclista romagnolo che ama il principato monegasco, nel quale aveva trasferito la sua residenza dal 94, scopre quanto può costar caro l’affetto per la patria ed il legame imperituro con la famiglia residente sul suolo natio.

Loris Capirossi si vede protagonista di una decisione della Suprema Corte (sentenza n. 12259 del 19 maggio 2010) che, sebbene già anticipata da altri precedenti che segnavano in modo sufficientemente chiaro la rotta degli Ermellini in tema di residenza e domicilio fiscale, sancisce in modo chiaro e netto un principio importante che interesserà anche molti altri VIPS, e  “aficionados” della costa azzurra.

La Suprema Corte afferma expressis verbis che il numero di giorni passati effettivamente all’estero, anche quando “certificati”, non vale ad arrestare la pretesa tributaria del Bel Paese quando risulti che il soggetto passivo di imposta abbia mantenuto in patria il suo “centro di interessi” non solo economici ma anche famigliari, personali ed affettivi, whatever that means.. .

La villa nel ravennate, che il pilota prendeva in affitto dal fratello, nonché le mantenute relazioni con la famiglia, elemento già ben anticipato dalla “sonora” ripresa fiscale che già interessò Pavarotti ( anch’egli inciampato in una villa questa volta nel pesarese), sono costati al centauro 3 milioni di Euro tra recupero e sanzioni.

Quelli di Capirossi e Briatore, che ha avuto l’onore di arrivare in prima pagina sul Financial Times, in relazione all’indagine delle Fiamme Gialle che contestano al manager di aver eluso 4 milioni di Euro di IVA e che ha costretto il “nostro” ad abbandonare il suo Foce Blue con moglie e prole al seguito dando origine a drammi famigliari attentamente seguiti da tutti gli abitanti della penisola… , sono solo due casi, da prima pagina appunto, all’interno di una generale politica volta a “stanare” ed eradicare l’innato vizio dell’elusione ed evasione fiscale ovunque esse si “annidino”.

Il livello di zelo dell’amministrazione finanziaria, con la manforte incondizionata della Corte di Cassazione che si erige a vero e proprio legislatore in materia fiscale, è facilmente desumibile dalla sentenza 12249 del 10 maggio 2010.

La Cassazione non si fa scrupolo di “dequalificare” un contratto tipico, nel caso di specie un comodato, in quanto finalizzato esclusivamente ad ottenere dei vantaggi di imposta non potendosi rinvenire nella concreta fattispecie negoziale strutturata dalle parti alcuna razionalità economica.

Il contratto è quindi considerato nullo per mancanza di causa.

A prescindere dal caso concreto, quel che preme mettere bene in evidenza è la definizione che il supremo collegio fornisce del concetto, fino ad ora  rimasto sempre vago ed  “elusivo”, di “valide ragioni economiche”.

Tali ultime, si spiega nell’arret, devono essere rilevanti, evidenti e provate con particolare rigore.

L’azienda quindi dovrà preoccuparsi non solo e non tanto di non porre più in essere “schemi” palesemente “abusivi” (ovvero ove, anche con la più grande fantasia e buona volontà non sia effettivamente proprio possibile trovare una ratio ed una giustificazione “altra” rispetto al risparmio di imposta) ma dovrà accertarsi altresì di poter dare, in caso di “problemi”, la prova documentata, e se si può documentale, del sussistere di ragioni extra fiscali anche in quei casi ove il risparmio di imposta sia la conseguenza di una strutturazione economica reale ed indipendente, ovvero, realizzata senza “secondi fini”.

L’alternativa potrebbe essere quella di scegliere sempre la strutturazione fiscale “meno conveniente” giusto per mettersi dalla parte del sicuro.. .

Ecco che il cambiamento di un’inveterata “tradizione” italica, quella di non dare evidenza documentale alle operazioni economiche e gestionali che scandiscono la vita dell’azienda, si trova sulla soglia di una svolta epocale proprio, paradossalmente, sulla spinta del fisco.

Per mettersi al sicuro da riprese a tassazione che, ormai, sembrano muovere dalla mera ricorrenza di qualsiasi parvenza di risparmio di imposta, bisognerà curarsi di “vestire”, documentare, tracciare  i processi decisionali e strategici al fine di poterli “opporre” a possibili “abusi” del fisco.

Per dirla in “soldoni” tanto più si scrive, si documentano le decisioni necessariamente circolate ed approvate da tutti gli organi societari deputati e prenderle e controllarle, tanto più si potranno respingere efficacemente gli assalti all’arma bianca dell’amministrazione finanziaria.

Se si considera poi che la ripresa a tassazione motivata dall’abuso di diritto può essere azionata per la prima volta in sede processuale, anche quindi quando non ve ne sia traccia nell’avviso di accertamento, ci si rende conto di quanto sia divenuto imperativo “costituirsi le prove e le armi” della battaglia fiscale che oggi spazia senza soluzione di continuità dal lease-back, ai fondi immobiliari chiusi fino a penetrare nella “riserva” dei contratti tipici come il comodato gratuito.

A prescindere dal caso concreto della decisione pre-estate, che non manca certo di far schizzare il barometro di tributaristi ed affini a livelli da pieno ferragosto si deve, necessariamente, rilevare con preoccupazione una indubbia, e secondo noi indebita, usurpazione di ruolo della Cassazione che di fatto, passando bellamente per la cruna di una norma programmatica come l’art. 53 della Costituzione, si erige a nuovo legislatore giustificando la legittimità del proprio interventismo sulla base di un elaborato “distinguishing” che separa la creazione di presupposti impositivi dall’eliminazione di indebiti vantaggi.

Orbene se sotto il profilo teorico, o meglio teoretico, sia concepibile condividere il principio, non pare che la sofisticatezza del reasoning sia particolarmente opportuna e “realista” nell’arena tributaria nostrana che, come noto, non ha mai trovato nella certezza e coerenza, tanto dei disposti normativi che delle loro interpretazioni, il suo elemento distintivo.

Ben venga dunque uno “sprone” ad un cambio di cultura nella gestione giornaliera dell’impresa anche quando il “sollecito” sia “notificato” dall’amministrazione finanziaria, ma occorre stare  in guardia da una prassi invasiva che  può condurre al paradosso, incerto, pericoloso e sicuramente costoso, di costringere l’impresa a “certificare” anche l’ovvio o l’impossibile.