Due mesi e dieci giorni di reclusione. Questa la condanna inflitta dal Tribunale de  L’Aquila e confermata in appello nel 2011 a due medici veterinari, il dirigente del Servizio Veterinario Asl e un suo dipendente, perché in concorso tra loro “senza necessità” (articolo 544 bis c.p.), avevano cagionato la morte di cuccioli di cane. La Terza Sezione penale della Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso degli imputati e con la sentenza n. 39053, depositata il 23 settembre 2013, ha dichiarato “manifestamente infondati” anche i motivi del ricorso.

Il fatto è presto riassumibile.

Nel 2010 il primo dirigente del servizio Veterinario dell’ASL de L’Aquila e un dipendente di detto servizio, dietro richiesta di un soggetto che risultò non averne titolo, uccisero nove cuccioli di cane in L’Aquila.

I due vennero condannati sia in primo che in secondo grado (la Corte d’Appello del L’Aquila riconobbe la sussistenza anche della crudeltà dell’azione) e ricorsero in Cassazione.

Il primo dirigente affermò la necessità sanitaria e sociale del proprio operato considerato che la segnalazione dell’esistenza dei cuccioli, al fine di liberarsene, proveniva da una persona che asseriva di esserne il proprietario.

Il secondo dipendente invocava la scriminante dell’adempimento del dovere (avendo egli agito su ordine del superiore gerarchico) prevista dall’ art. 51 c.p. La difesa dell’imputato verteva sulla legittimità dell’ordine ricevuto o, comunque, sulla natura non manifestamente criminosa dell’ordine stesso.

Entrambi i motivi di ricorso sono stati respinti dalla Suprema Corte.

Circa la mancanza dello stato di necessità che, qualora esistente, esclude la configurabilità del delitto d’uccisione d’animali, i giudici di legittimità hanno, innanzitutto, ribadito quanto da essi pronunciato in precedenza (Cass. 44822/2007): la scriminante risulta sussistere nei casi in cui sia palese lo stato di necessità previsto dall’art. 54 c.p. nonché ogni altra situazione che induca all’uccisione o al maltrattamento dell’animale per evitare un pericolo imminente o per impedire l’aggravamento di un danno alla persona o ai beni ritenuto altrimenti inevitabile. L’istruttoria effettuata nei giudizi di merito, che aveva portato a due pronunce che la Suprema Corte ha ritenuto corrette anche dal punto di vista della motivazione, aveva evidenziato come i cuccioli fossero in buona salute, accuditi da volontari e sistemati all’interno di un terreno recintato. La soppressione, nel caso concreto, non risultava, quindi, inevitabile in quanto non sussistente una situazione di necessità intesa nel senso ampio sopra accennato. La normativa regionale esclude, secondo la Cassazione, anche l’esistenza dell’errore di legittimità sull’ordine ricevuto da parte del secondo ricorrente, in quanto  gli animali non riusultavano “né inselvatichiti né tali da porre in pericolo attuale l’ordine sanitario e sociale”.

In sintesi la decisione in esame ha individuato alcuni punti fermi che non potranno non avere applicazione futura per gli esercenti attività veterinaria, in quanto viene ribadito che la norma penale riguardante l’uccisione di animali, riguarda senza distinzioni: sia normali cittadini, sia veterinari.