Ai giorni nostri è sicuramente mutato rispetto al passato il concetto di “onore”; in tempi in cui sempre maggiormente si ricorre ad un linguaggio tutt’ altro che forbito, ma infarcito di “slang” risulta alquanto curiosa la tendenza attualmente in atto, per la quale un numero sempre crescente di cittadini ricorre ai tre gradi di giudizio per reagire anche agli insulti più banali.

E’ l’ art. 594 c.p. che nel nostro ordinamento si occupa di tutelare penalmente il bene giuridico dell’ onore che tradizionalmente, si compone di due aspetti complementari : quello soggettivo, per il quale l’ onore è l’ idea, il sentimento che ciascuno ha di sé, e quello oggettivo per cui l’ onore o come si suole dire la “reputazione”, è inteso  come il rispetto e la stima di cui ciascuno gode presso la società intesa come gruppo sociale.

La Cassazione ha dato diverse interpretazioni sul punto a seconda delle differenti situazioni che di fatto si possono verificare: ad esempio per l’ automobilista specie se giovane, è lecito dire al pedone che protesta perché è stato sfiorato:  “non rompermi i coglioni” perché, in questo caso “le parole volgari sono usate come un intercalare, come un rafforzativo del pensiero”.

Si riscontra così un notevole cambiamento di orientamento della Cassazione rispetto al passato, nell’ 1983 la stessa affermava infatti che “il fatto che un’ espressione ricorra  frequentemente nel linguaggio popolare, non vale a privarla del suo contenuto oltraggioso”, attualmente invece è possibile rafforzare il proprio pensiero.

Ulteriore espressione del diritto alla riservatezza, che ha trovato recentemente tutela in Cassazione, è il diritto all’ oblio inteso come primaria ed indeclinabile esigenza della persona, richiamato relativamente al caso “Filo della Torre” in cui si era ribadita una condanna  per una  non accurata rievocazione giornalistica del suddetto delitto, in cui si parlava di vecchi sospetti che erano stati invece smentiti dall’ inchiesta.

Interessante, ancora sapere che secondo la Suprema Corte che è lecito dire a qualcuno “sei disonesto”, se detto solo relativamente ad un fatto specifico, non implicando una disonestà assoluta della persona. Mentre non si possono dire parolacce sulla suocera assente perché offendete direttamente vostra moglie.

Ed ancora si può rischiare l’ aggravante dell’ odio razziale dicendo a qualcuno “negro di merda (sul punto ci sono due sentenze contrastanti), ma è invece consentito dire “italiano di merda” perché qui il pregiudizio razziale non è assolutamente in causa.

Non si può dare ad un magistrato “del sepolcro imbiancato” perché “il significato inequivocabilmente denigratorio ha risalenza evangelica, ben più che millenaria”, ma se si dice ad un insegnante che ha “metodi hitleriani”, lei ha diritto di rispondere con parolacce.

Se un carabiniere ferma un extracomunitario cui è stata sospesa la patente, mentre è alla guida di un’ auto, e questo risponde che non era lui a guidare ma il vicino, l’ agente non può dirgli “stronzo”.

La Cassazione ha anche annullato la sentenza assolutoria per colui che aveva detto ad un altro soggetto “mi fai schifo”, cosa che il Tribunale d’ Appello, aveva definito opinione personale e non un giudizio oggettivo perché aveva usato il “mi” in luogo della mera espressione “fai schifo”.

Come si nota è, quindi in Italia vastissimo il ricorso alla Cassazione come tutela del reato di ingiuria, che spesso all’ estero viene invece considerato “reato minore” per il quale non si suole ricorrere spesso a più gradi di giudizio, e che viene generalmente sanzionato con un’ ammenda, una sanzione, e addirittura negli Usa con lavori socialmente utili.

La situazione così descritta potrebbe però anche creare degli assetti problematici nel momento in cui le energie ed il tempo dei magistrati della Suprema Corte risultano frustrati da tali reati “minori”.