Chi diffama su Facebook rischia fino a tre anni di carcere. È questo l’atteso verdetto della Cassazione sulla “nota” e burrascosa questione nata in seguito ad un divorzio tra due coniugi per alcuni post offensivi pubblicati sul social network.

La pronuncia della prima sezione penale, attesa per il 28 aprile scorso e arrivata invece in questi giorni, ha dato ragione all’ex moglie, affermando che a decidere sulla diffamazione su Facebook è il tribunale in quanto ipotesi di reato da considerarsi aggravata.

Antecedente alla pronuncia della prima sezione penale, che ha sciolto ogni dubbio in proposito, si era sollevata la questione in ragione del fatto che relativamente a queste controversie su Facebook se ne dovesse occupare il tribunale, essendo ritenuta una forma di diffamazione aggravata( con conseguente possibilità di applicazione della detenzione in carcere) oppure il giudice di pace, ritenendola di fatto una diffamazione “semplice” (potendo applicare in questo caso solo multe).

La vicenda:

Sposati nel 2007, entrambi romani, lei 41 anni e lui 43. Dal matrimonio, nel 2010, è nato un figlio. La crisi matrimoniale e la separazione avvengono dopo la nascita del bambino. Nello stesso anno, la donna, querela l’ex, accusandolo di aver pubblicato su Facebook alcuni post e commenti dal contenuto diffamatorio. Frasi che riguardavano accuse che l’uomo faceva alla donna sulle modalità di educazione del bambino (affidato alla mamma) e offese «classiche». Il processo venne incardinato inizialmente davanti al giudice di pace che però aveva dichiarato la sua incompetenza ritenendo la diffamazione su Facebook aggravata dal mezzo della pubblicità e quindi di competenza del tribunale.

Ma l’avvocato dell’uomo sollevava il conflitto di competenza che veniva accolto dal giudice romano, per il quale Facebook non poteva essere paragonato ad un quotidiano o ad un blog online, da tutti visionabili sulla rete, per cui la competenza era del giudice di pace.

In questa sede è stato quindi discusso il termine “mezzo di pubblicità” in relazione al social network: Facebook non è simile a un blog perché questo può essere visto da tutti sulla rete. Per avere un profilo Facebook invece l’utente deve iscriversi, creare un account e spesso i post pubblicati vengono condivisi soltanto con gli amici. Teoricamente quindi mancherebbe il requisito che caratterizza i mezzi di pubblicità, ovvero che gli insulti possono essere visti da una pluralità indeterminata di soggetti.

La questione finiva così al vaglio della Cassazione.

Chiamata a pronunciarsi, dopo una lunga camera di consiglio, piazza Cavour ha quindi deciso che in caso di diffamazione su Facebook la competenza spetta al Tribunale e non al giudice di pace, in quanto la stessa è da ritenersi “aggravata dal mezzo della pubblicità e pertanto la pena da applicare può essere il carcere”.

Chi diffama sui social, dunque, d’ora in poi rischia la reclusione da 6 mesi a 3 anni.

Per capire il percorso logico seguito dagli Ermellini, però, bisognerà attendere le motivazioni della sentenza non ancora rese note.