Analizziamo insieme la sentenza n. 695/2013 in data 6 febbraio 2013 del Consiglio di Stato. Non farò commenti personali, anche se, comunque, ritengo non sufficientemente appropriata nè motivata questa decisione, anche perchè emessa a poca distanza dall’ entrata in vigore del decreto legislativo n. 235/2012 e, probabilmente influenzata dallo spiacevole spettacolo politico-mediatico di discussioni cui abbiamo assistito in questi giorni.

Le conclusioni prese dai Giudici, devono essere valutate alla luce dell’obiettivo di formarsi di un’opinione personale ed indipendente, sulle conseguenze della Sentenza Mediaset. Analisi deduttiva quanto mai necessaria.

Il Consiglio di Stato (Sezione Quinta) con la decisione sopra citata, respingeva l’appello contro la sentenza breve del T.A.R. MOLISE n. 00027/2013, presentato da un cittadino. Il TAR aveva confermato, a seguito del ricorso di cui sopra il provvedimento dell’Ufficio Centrale Regionale per le elezioni regionali in Molise che ne cancellava il nominativo dalla lista regionale a supporto di un candidato a presidente.

Infatti, nel casellario giudiziale, a carico del ricorrente risultava esservi iscritta una sentenza di condanna, passata in giudicato nel 2001, relativa al delitto di abuso d’ufficio. Reato che è previsto come ostativo della candidabilità dall’art. 7, comma 2, lett. c), del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235.

Queste le argomentazioni svolte dal Consiglio di Stato, per replicare alla tesi dell’ appellante, secondo cui la normativa inibitoria di cui al citato D.Lgs. n. 235/2012 sarebbe applicabile solo con riferimento alle sentenze successive alla sua entrata in vigore.

Considera, invero, il Tribunale che l’applicazione delle cause ostative introdotte da nuove norme alle sentenze di condanna intervenute in un lasso di tempo anteriore, non si pone in contrasto con il dedotto principio, ricavabile dalla Carta Costituzionale e dalle disposizioni della CEDU, dell’irretroattività delle norme penali e, più in generale, delle disposizioni sanzionatorie ed afflittive. Secondo questo dicta, dunque, non sarebbe passibile di condivisione la premessa, da cui muove l’appellante e cioè della natura meramente sanzionatoria del precetto preclusivo in oggetto, in quanto, nel caso in esame, non solo, non si tratta di misure di natura sanzionatoria penale, ma neppure di sanzioni amministrative o di disposizioni in senso ampio sanzionatorie.

Infatti, il precetto normativo in esame prende in considerazione casi di incandidabilità che il legislatore, nel pieno esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto di configurare in relazione al fatto che l’aspirante candidato abbia subito condanne a proposito di determinate tipologie di reato caratterizzate da uno speciale disvalore (Corte Cost. sentt. n. 407/1992; n. 114/1998).

Alla luce di ciò si desume che il fine primario perseguito dalla norma è quindi quello di allontanare dallo svolgimento di un ruolo pubblico i soggetti per i quali sia stata conclamata un’inidoneità da irrevocabili pronunzie di giustizia.

Partendo da ciò una condanna penale irrevocabile deve essere presa in considerazione solo come mero presupposto oggettivo cui è ricollegato un giudizio di “indegnità morale” a ricoprire determinate cariche elettive: quindi la condanna stessa viene considerata alla stregua di “requisito negativo” o “qualifica negativa” ai fini della capacità di partecipare alla competizione elettorale ed altresì di mantenere la carica.

Da questo carattere non sanzionatorio della norma si dovrebbe desumere di conseguenzala non compatibilità con le disposizioni dettate dall’art. 25 Cost., in materia di sanzioni penali, e dall’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in tema di misure lato sensu sanzionatorie.

Infatti, l’applicazione della richiamata disciplina ai procedimenti elettorali successivi alla sua entrata in vigore, pur se con riferimento a requisiti soggettivi collegati a fatti storici precedenti, non dà vita ad una situazione di retroattività, ma costituisce applicazione del principio generale tempus regit actum che impone, in assenza di deroghe, l’applicazione della normativa sostanziale vigente al momento dell’esercizio del potere amministrativo.

La preclusione in esame, a dire del Consiglio di Stato, non rappresenta un effetto penale o una sanzione accessoria alla condanna, bensì un effetto di natura amministrativa che, in applicazione della disciplina generale dettata dall’art. 11 delle preleggi sull’efficacia della legge nel tempo, regola le procedure amministrative svolgano il loro effetto in un arco di tempo successivo. Una diversa interpretazione della norma, la quale ridesse valore alle sentenze di condanna successive, costituirebbe, invece, una deroga al regime ordinario in quanto implicherebbe un regime di ultra-attività della precedente disciplina più favorevole.