La Corte di Cassazione ha stabilito che integra il reato di diffamazione il comportamento del cronista che si lascia andare a valutazione del tutto “autonome” rispetto alle risultanze istruttorie e al procedimento, valutazioni orientate a qualificare come colpevole l’imputato. Questo è il principio sancito con la sentenza n. 3674, depositata il primo febbraio 2011. Infatti, a detta dei giudici della quinta sezione penale, l’esercizio del diritto di cronaca deve essere garantito al solo giornalista che si limiti ad esporrei fatti già accaduti e rispetto ai quali l’indagato non lesivi della sua reputazione in quanto correlati al procedimento. Al contrario, laddove il cronista giudiziario si lasci andare a valutazioni personali ed assolutamente “soggettive” ed in tal modo sganciate dall’andamento del processo, anticipando l’esito del processo in senso colpevolista, allora questo comportamento integrerà il reato di diffamazione cui all’art. 595 del codice penale. Invero, il processo l’unico luogo in cui si andrà ad accertare la “verità storico-giuridica” dei fatti e non il giornale, in cui può essere indicata la sola narrazione dell’accaduto. La Corte ha spiegato che “l’esimente invocata nel presente processo è quella rientrante nell’esercizio del diritto di informare i cittadini sull’andamento degli accertamenti giudiziari a carico di altri consociati, cioè il diritto di cronaca giudiziaria”. Dunque i giudici di legittimità ritengono che “il diritto di cronaca giornalistica, giudiziari o di altra natura, rientra nella più vasta categoria dei diritti pubblici soggettivi, relativi alla libertà di pensiero e al diritto dei cittadini di essere informati, onde poter effettuare scelte consapevoli nell’ambito della vita associata (…). In pendenza di indagini di polizia giudiziaria e di accertamento giudiziari nei confronti di un cittadini, non può essere a questi riconosciuti il diritto alla tutela della propria reputazione: ove i limiti del diritto di cronaca siano rispettati, le lesione perde il suo carattere di antigiuridicità”. Dopo aver delineato i limiti dell’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria in quanto esimente alla configurabilità del reato, i giudici, confermando la sentenza di condanna in primo grado per diffamazione a carico del cronista, hanno però aggiunto che, nel caso si specie, non può ipotizzarsi l’esistenza della causa di giustificazione del diritto di cronaca in quanto “la reputazione del soggetto coinvolto in indagini e accertamenti penali non è tutelata rispetto all’indicazione di fatti e alla espressione di giudizi critici, a condizione che questi siano in correlazione con l’andamento del procedimento. Rientra cioè nell’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria riferire atti di indagini e atti censori, provenienti dalla pubblica autorità, ma non è consentito effettuare ricostruzioni, analisi, valutazioni tendenti ad affiancare e precedere attività di polizia e magistratura, indipendentemente dai risultati di tali attività. È quindi in stridente contrasto con il diritto/dovere di narrare fatti già accaduti, senza indulgere a narrazioni a valutazioni “a futura memoria” l’opera del giornalista che confonda cronaca su eventi accaduti e prognosi su eventi a venire. In tal modo, egli, in maniera autonoma, prospetta e anticipa l’evoluzione e l’esito di indagini in chiave colpevolista, a fronte di indagini ufficiali né iniziate né concluse, senza essere in grado di dimostrare la affidabilità di queste indagini private e la corrispondenza a verità storica de loro esito. Si propone infatti un processo non più garantista, dinanzi al quale il cittadino interessato ha, come unica garanzia di difesa, la querela per diffamazione”. “A ognuno spetta il suo compito – ha concluso la Corte – agli inquirenti il compito di effettuare le indagini, ai giudici il compito di emettere la sentenza, al giornalista il compito di raccontare i fatti, nell’esercizio del diritto di conformare, ma non di suggestionare, la collettività”.