Con la pronuncia n.9844 del 15 giugno 2012, la Cassazione torna su un tema controverso di grande rilevanza socio-giuridica, nazionale e internazionale, che coinvolge il delicato settore del diritto di famiglia, tanto sotto il profilo della legislazione ordinaria, quanto sotto il profilo della normativa costituzionale, con pesanti conseguenze sia a livello di diritto internazionale nel rapporto Stato-Chiesa, sia sul piano politico; il tema è quello dell’ammissibilità di delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità di un matrimonio concordatario, in caso di prolungata convivenza coniugale successiva alle nozze.

La problematica è stata spesse oggetto d’interventi da parte del Giudice del diritto.

Ecco in sintesi l’excursus storico.

Il primo intervento di rilievo è operato a Sezioni Unite nel 1998.

La composizione del conflitto giurisprudenziale da parte della Suprema Corte delegittima ufficialmente l’orientamento minoritario di dottrina e giurisprudenza; viene infatti affermato il principio di diritto secondo il quale in tema di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii, manifestata all’altro coniuge, nella disciplina di cui agli articoli 1 Legge 27.05.1929, n.810 e 17 L. 27.05.1929, n.847, non contrasta con l’ordine pubblico italiano e deve quindi essere dichiarata esecutiva in Italia la sentenza ecclesiastica che tale nullità abbia dichiarato, anche se la relativa azione sia stata proposta dopo il decorso dell’anno della celebrazione o dopo che si sia verificata la convivenza dei coniugi successivamente alla celebrazione stessa[1].

La normativa coinvolta riguarda l’art.123 c.c. e l’articolo 29 Costituzione, i quali evidenzierebbero un particolare favor per la validità del matrimonio, quale fonte del rapporto familiare incidente sulla persona e oggetto di rilievo e tutela costituzionali.

Per ben due decenni l’orientamento giurisprudenziale rimane compatto e invariato.

A seguito del rinnovarsi di un contrasto giurisprudenziali  nel luglio del 2008, la Suprema Corte, sempre a Sezioni Unite,[2]introduce – in argomento – un altro principio di diritto, secondo il quale le cause d’incompatibilità di una sentenza straniera con l’ordine pubblico italiano devono distinguersi in assolute e relative, rilevando comunque entrambe ai fini della delibazione da parte della Corte d’appello territoriale, fatta eccezione per le pronunce dei tribunali ecclesiastici che, in ragione del favore particolare al loro riconoscimento, che lo Stato italiano si è imposto con il protocollo addizionale del 18.02.1984, possono essere delibate anche in caso di incompatibilità relativa.

Arriviamo così al 2011, quando la prima sezione semplice della Corte di Cassazione[3] infrange l’apparente tranquillità determinatasi  in materia, con una pronuncia di forte impatto anche mediatico, affermando il principio esattamente contrario, ossia la rilevanza ostativa alla proponibilità di un’azione di delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, nel caso in cui si sia verificata, nella fattispecie concreta,  una convivenza particolarmente prolungata oltre il matrimonio.

Con la successiva decisione n.1780/2012, la Cassazione puntualizza e chiarisce che il limite dell’ordine pubblico richiede tuttavia che si tratti non di mera coabitazione materiale, bensì di vera e propria convivenza significativa di un’instaurata affectio familiae, nel naturale rispetto dei diritti e obblighi reciproci, tale da dimostrare l’instaurazione di un matrimonio-rapporto duraturo e radicato, nonostante il vizio genetico del matrimonio-atto.

Chiudiamo l’iter giurisprudenziale con altre due significative pronunce:

1) la sentenza n. 8926/2012, secondo la quale la convivenza matrimoniale è mera condizione esterna dell’azione, non riconducibile quindi a un principio di ordine pubblico interno; contestualmente, per la Corte, nemmeno può ravvisarsi una violazione di norme imperative previste dall’ordinamento italiano, perché, nella specie, la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale – anche nel caso di prolungata convivenza – sarebbe comunque consentita dallo strumento concordatario, dunque da una normativa di rango costituzionale;

2)  la già citata sentenza n. 9844/2012, di rilievo, invece, per le seguenti affermazioni di principio:

a)     non rileva la mera durata del matrimonio, ma la provata effettiva convivenza;

b)    non rileva se la sentenza di divorzio sia o meno passata in giudicato.

Le ragioni sottese all’acceso dibattito vanno ravvisate nel possibile pericolo di avvallare  – in caso di delibazione di sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale discutere risiedono probabilmente nella considerazione di un possibile pericolo di avvallare, in caso di delibazione di sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniali intervenute anche in rapporti di coniugio obbiettivamente di lunga durata – una giurisprudenza comunque lesiva dei diritti della parte economicamente più debole; altro motivo, potrebbe essere quello di voler porre un freno a strumentalizzazioni immorali del procedimento canonico, il cui unico e precipuo fine è, di contro, sempre e soltanto la salus animarum dei christifidelis (can.1752 CIC83).

E’ a tutti evidente la divergenza esistente fra disciplina civilistica e disciplina canonistica nel tema che ci occupa: la sostanziale diversità – ossia l’imprescrittibilità dell’azione canonica e l’assenza di cause di decadenza – determina spesso la declaratoria di nullità canonica anche là ove il giudice civile ne sarebbe impedito.

Ancorchè, in calce ad ogni sentenza di nullità, si trovi l’ammonizione rivolta alle parti di adempiere agli obblighi morali e civili cui sono tenuti l’una verso l’altra circa il sostentamento, tuttavia, è solo la Corte d’Appello – negando la delibazione – che può scongiurare in concreto il pericolo che uno dei due coniugi si trovi privo di mezzi economicamente adeguati a seguito del riconoscimento, agli effetti civili, di una sentenza ecclesiastica pronunciata dopo lunga convivenza.

Attribuibile alla prolungata convivenza matrimoniale, come sostiene parte di dottrina e giurisprudenza, il significato di volontà di accettazione del rapporto che ne è seguito, è certamente tesi sostenibile in diritto.

Ma  a questo punto s’impongono altre significative riflessioni, e segnatamente:

  • aderire a detta soluzione, fatta propria dalla prima sezione semplice della Corte di Cassazione significherebbe svuotare di contenuto il Concordato fra Stato italiano e Santa Sede;
  • utilizzare come discrimen la durata della convivenza coniugale, facendone derivare una presunzione semplice di affectio familiae, legittimerebbe un’ingerenza nel merito da parte della Corte d’Appello, in un giudizio di delibazione ove il riesame nel merito è vietato.
  • Tale divieto discende, infatti, dall’art.4.b.3 del Protocollo addizionale all’Accordo del 1984 di revisione del Concordato, ove si legge si intende che in ogni caso non si procederà al riesame del merito; in assoluta aderenza al dato normativo, la Cassazione a Sezioni Unite ha ricordato che al giudice italiano è, per espressa disposizione pattizia, interdetto il riesame del merito della vicenda processuale matrimoniale, quando uno dei coniugi a detto giudice abbia chiesto di attribuire effetti civili alla sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio[4].

Il Giudice italiano è quindi vincolato ai fatti accertati dal Tribunale ecclesiastico, e il controllo di non contrarietà della sentenza straniera con l’ordine pubblico italiano deve essere una quaestio iuris e non risolversi in un’indagine sui fatti.

Alla luce di quanto esposto, viene da chiedersi come mai a fronte di un’espressa norma pattizia, ci sia comunque un margine di manovra così ampio da consentire, tanto alla dottrina quanto alla giurisprudenza, posizioni di conflitto allo stato ancora lontane da un solido componimento.

L’indirizzo minoritario motiva il proprio orientamento sulla base della considerazione che il divieto di riesame del merito da parte della Corte d’Appello copre il giudicato e poiché l’accertamento della communitas vitae et amoris è irrilevante per il diritto canonico sostanziale, la questione della convivenza non risulterebbe mai coperta da giudicato ecclesiastico, volto ad accertare unicamente la validità originaria del vincolo.

Vero è che il giudicato si forma su tutte le questioni trattate dalla Corte, anche quelle che costituiscono il presupposto logico, preliminare e indispensabile, della pronuncia; in tal senso è l’orientamento della giurisprudenza rotale sul punto, confermato ad esempio da Cassazione n.14477 del 23.12.1999, secondo la quale il giudicato si forma non solo sulle questioni, ma anche sugli accertamenti di fatto, i quali rappresentano le premesse necessarie e il fondamento logico giuridico della pronuncia.

Tuttavia, nonostante l’interpretazione estensiva dei limiti oggettivi del giudicato, non pare si possa affermare con certezza che sulla questione dell’affectio familiae si formi un giudicato ecclesiastico, preclusivo per la Corte d’Appello in sede di delibazione.

Insomma, le questioni interpretative sottese alla questione de qua sono tanto complesse quanto lontane dall’essere definitivamente risolte; l’unica soluzione prospettabile pare dunque quella suggerita dalla più autorevole dottrina, ossia fare ricorso alla Commissione paritetica prevista dall’art.14 dell’Accordo di revisione del Concordato del 1984, legittimata a intervenire qualora sorgano difficoltà d’interpretazione o applicazione delle norme pattizie.

Il punto è sicuramente molto delicato: aderire a delle soluzioni- fatta prima dalla semplice sezione della Corte di Cassazione – significherebbe svuotare di contenuto il concordato con la Santa Sede e lo stato italiano;

utilizzare come discrimen la durata della convivenza, facendone derivare una presunzione semplice di affectio familiae, legittimerebbe un’ingerenza nel merito da parte della Corte d’Appello, in un giudizio di delibazione ove è vietato il riesame nel merito.

Se in avvenire sorgessero difficoltà di interpretazione o di applicazione delle disposizioni precedenti, la Santa Sede e la Repubblica italiana affideranno la ricerca di un’amichevole soluzione ad una Commissione paritetica da loro nominata.

Come è dato intuire, soggetti legittimati a nominare la Commissione Paritetica sono la Repubblica Italiana e la Santa Sede; lo scopo ultimo è trovare un’amichevole soluzione.

 


[1] Corte di Cassazione, Sezione Unite, n. 4700 del 20.07.1988.

[2] Corte di Cassazione, Sezione Unite, n.19809 del 18.97.2998

[3] Prima Sezione, Corte di Cassazione n.1343 del 20.01.2011.

[4] Cassazione Sez. Unite, ordinanza 6 luglio 2011, n.14839.