È il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 23771 del 03.12.2015, ad inaugurare nel nostro paese l’applicazione in sede giudiziale dei principi relativi al cd. right to be forgotten, così come elaborati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella nota decisione “Google Spain” datata maggio 2014.

Con la sentenza del 3 dicembre scorso il giudice capitolino, infatti, attinge alla decisione della Corte di Giustizia del 13 maggio 2014, C-131/12, Google Spain SL, Google Inc. contro Agencia Española de Protección de Datos, Mario Costeja González ed applica gli importanti principi giuridici inerenti al c.d. diritto all’oblio – right to be forgotten, appunto – in essa formulati: il cd. diritto all’oblio altro non è se non un’espressione del più ampio diritto alla privacy, relativamente alle vicende personali diffuse via web, che comporta lo speculare obbligo per Google (o per qualsiasi altro motore di ricerca interpellato) di “deindicizzare”, su richiesta dell’interessato, il suo nominativo in relazione, appunto, a particolari vicende legate al suo nome.

Con la deindicizzazione il soggetto con un passato non propriamente illibato pare, pertanto, potersi redimere.

Attenzione però: la Corte di Giustizia (e allo stesso modo il Tribunale di Roma, facendo proprio l’orientamento europeo) condiziona l’obbligo del motore di ricerca di adoperarsi per l’oscuramento in presenza di due specifici requisiti: il fatto che la vicenda da cui si chieda “scollegare” il proprio nome sia risalente nel tempo e l’insussistenza di un interesse pubblico alla conoscenza di tale fatto.

Il caso italiano

Nel dicembre 2014 il ricorrente, avvocato, chiedeva a Google di “deindicizzare” 14 URL risultanti da una ricerca concernente il proprio nominativo, in relazione a vicende giudiziarie nelle quali veniva coinvolto. Gli URL rimandavano a notizie di cronaca circa una vicenda giudiziaria risalente agli anni 2012-2013 in cui pareva implicato insieme ad altri personaggi della capitale, esponenti del clero e soggetti riconducibili alla c.d. banda della Magliana, in relazione a presunte truffe e guadagni illeciti a loro imputati.

Il professionista si doleva che i link di cui ai risultati del motore di ricerca portassero ad «una risalente vicenda giudiziaria nella quale era rimasto coinvolto senza che mai fosse stata pronunciata alcuna condanna» e, per tali ragioni, chiedeva la condanna di Google al risarcimento dei danni derivanti da detto illegittimo trattamento dei suoi dati, da quantificarsi nella misura non inferiore a 1.000,00 €.

La resistente si costituiva contestando, nel merito, l’inesistenza del diritto all’oblio di controparte in relazione alle notizie riportate, soprattutto in considerazione dell’assenza del requisito dello scorrere del tempo rispetto all’accadimento dei fatti, oltre che del ruolo dell’interessato di assoluta rilevanza pubblica.

Il tribunale romano, facendo buona applicazione dei principi made in Lussemburgo, respinge la domanda del professionista: benché riconducibile al trattamento dei dati personali ed al diritto all’oblio quale parte essenziale del diritto alla riservatezza, i dati trattati risultano infatti da un lato recenti, dall’altro di pubblico interesse.

Innanzitutto il trascorrere del tempo dall’accadimento dei fatti in parola, ai fini della lesione del right to be forgotten, si configura come elemento costitutivo essenziale. Sul punto si confronti la nostrana giurisprudenza di legittimità, secondo cui il diritto all’oblio esige «che non vengano ulteriormente divulgate notizie che per il trascorrere del tempo risultino ormai dimenticate o ignote alla generalità dei consociati» (Cass. Civ., Sez. III, 05.04.2012, n. 5525), mentre gli URL per i quali è causa sono riconducibili al 2013 o, per quelli più risalenti, al 2012, pertanto possono definirsi recenti, mantenendo una innegabile attualità.

Inoltre, per quanto riguarda il secondo aspetto, l’attività di avvocato esercitata dal ricorrente configura certamente un ruolo di interesse pubblico, posto che, come a ben vedere precisa il giudice capitolino, tale non è esclusivamente quello attribuibile al «politico», ma vi rientrano senza dubbio anche le figure degli «alti funzionari pubblici, degli uomini d’affari e degli iscritti in albi professionali»,

Opinione pienamente condivisibile: sussiste non solo il diritto dell’opinione pubblica a conoscere le vicende riguardanti un professionista che, svolgendo le sue mansioni, ricopre un ruolo di rango istituzionale, ma altresì il dovere del professionista di svolgere una attività responsabile e di tenere una condotta corretta, di conseguenza cristallina, nei confronti dei consociati.

Tale secondo dato indubbiamente fa prevalere il diritto all’informazione sul diritto alla privacy e pertanto legittima la diffusione di notizie e dati altrimenti (in assenza di interesse pubblico) tutelabili.

In ispecie, l’ingerenza nei diritti fondamentali del professionista viene giustificata dall’interesse preponderante del pubblico ad avere accesso all’informazione in questione.

In proposito, inoltre, il giudice evidenzia come il ricorrente non abbia nemmeno prodotto adeguata documentazione che attesti la conclusione della vicenda («archiviazioni, sentenze favorevoli…») pertanto essa permane innegabilmente d’attualità.

Infine, in relazione alle doglianze avanzate dal ricorrente sulla falsità delle notizie riportate dal motore di ricerca, l’interessato dovrà agire a tutela della propria reputazione e riservatezza esclusivamente nei confronti dei siti terzi che abbiano pubblicato notizie infedeli o non aggiornate con i successivi sviluppi – eventualmente favorevoli al ricorrente –, non nei confronti del gestore del motore di ricerca, poiché questo opera meramente quale caching provider ai sensi dell’art. 15 d.lgs. 70/2003.

In conclusione, nel bilanciamento fra diritto alla riservatezza e diritto di informazione – nella sua estrinsecazione di interesse pubblico a rinvenire sul web notizie relative a persone che svolgono ruoli pubblici od attività comunque di pubblico interesse –, entrambi diritti di rango primario, tutelati dalla Costituzione, il diritto di informazione prevale su quello all’oblio.

L’applicazione concreta di tale principio non piacerà certo a coloro che sono risultati coinvolti, loro malgrado o coscientemente, in circostanze non proprio politically correct od in vicende al limite della legalità se non in vere e proprie attività illecite.

Tuttavia, purtroppo e per fortuna, questo è il prezzo di una società altamente tecnologizzata, ove il grande intermediario Google permette all’informazione di venire a galla istantaneamente, dissotterrando vicende che l’umana memoria dimentica con estrema facilità.

D’altronde questo è il senso del diritto all’informazione di una società civile e democratica, che non può essere snaturato che con l’ascesa di interessi particolari, perciò solo inconciliabili con l’interesse primario comune.