“La più alta forma di intelligenza è quella che permette di avere in testa due pensieri divergenti e continuare a funzionare.  Questa filosofia mi è stata particolarmente utile nella mia vita adulta, ogni vota che ho visto realizzarsi l’improbabile, l’inaspettato, l’impossibile”, (S. Fitzgerald, “The Crack Up”)

“Incertezza radicale” è l’espressione che meglio sintetizza lo stato in cui versa l’ordine economico odierno.

Una incertezza che, come ben rilevato da Marvin King e John Key nel libro “Radical Uncertainty”, poneva una nuova sfida a tutti gli attori economici già ben prima della deflagrazione pandemica.

In un lontanissimo 2012 Gillian Tett titolava la fine dell’analisi meccanica del rischio e della pianificazione strategica per tabelle elettroniche, accendendo un potente faro su quello che sarebbe diventato un tratto caratterizzante della vita aziendale: l’impossibilità di programmare sulla base di canoni standard capaci solo di proiettare le ombre del passato su di un futuro che si illumina di luci sempre diverse. (Gillian Tett, Our volatile age defies spredsheet strategy, FT).

All’incertezza che confronta il versante della produzione, dove operatori di fatto integrati tra loro non possono pensare di proteggersi da un “ripple effect”, da una cascata di inadempimenti o, quantomeno, di “cortocircuiti contrattuali sequenziali”, (Pasta supply chain give producers food for thought, FT) alzando barriere di “carta”, per quanto ben redatta e strutturata, se ne aggiunge una ulteriore che si gioca sul piano di una domanda.

“Mass Customization” e “demand side economics” sono le due espressioni che catturano quella vera e propria mutazione genetica dell’economia che ha definitamente obliterato l’era geologica del “mass market” e della “supply side economy”.

Una domanda volatile, poco fidelizzabile e prevedibile, in costante richiesta di specializzazioni e produzioni “fuori standard”, quale che sia il mercato in questione, non permette più di capitalizzare sulla perfetta gestione dei costi, sul raggiungimento di quote di mercato ed efficienze di “scala” che possono essere spazzate via da nuovi operatori più abili a sfruttare i vantaggi di una accelerazione tecnologica che sarà tanto “disruptive” quanto il Covid 19.

La programmazione e l’organizzazione aziendale non solo deve razionalizzare, senza implodere, delle tensioni strutturalmente opposte, quella dell’agilità, della velocità dei processi decisionali, della “destrutturazione burocratica”, mantenendo una mentalità sempre pronta al cambiamento (The Founder’s Mentality, Z. Allen, HBR Publishing) e mai prigioniera di business plan che nascono già obsoleti (Why the lean start up changes everything, S. Blan, Harvard Business Review) senza perdere, tuttavia, il valore della struttura, delle efficienze industriali, delle prassi organizzative e dei modelli aziendali che, comunque, devono rispondere a costrizioni di compliance e standard regolatori precisi e severi.

In tale rinnovato contesto più che analizzare il “funzionamento” delle clausole di forza maggiore, verificarne lo spazio operativo, valutare se siano più o meno efficienti dei rimedi impliciti – gap filling provisions – di cui tutti gli ordinamenti si dotano per far fronte a situazioni di sopravvenuta impossibilità od eccessivo disequilibrio economico tra prestazione e controprestazione, sarebbe più utile ragionare in termini di una rinnovata “funzione” della clausola di forza maggiore e del contratto in generale.

Il presupposto economico delle analisi che traboccano da ogni angolo della “rete” sembra essere, ancora, quello del perfetto funzionamento del mercato come spazio asettico che permette il fluido movimento di attori intercambiabili che, senza alcun attrito generato, ad esempio, dall’impossibilità di valutare al meglio i loro stessi interessi (bounded rationality), piuttosto che dall’impossibilità di controllare e gestire efficacemente l’altrui opportunismo (transaction cost), si muovono per arrivare ad una convergenza fondata sulla bipolarità, sullo scambio di utilità economiche attese sempre opposte, che si risolvono nell’utilità del singolo, senza saper o poter generare un valore ulteriore, congiunto, superiore rispetto all’atteso ricavo che il singolo operatore spera di poter contabilizzare.

L’analisi economica e manageriale ha, da tempo, reso giustizia dell’idea del mercato come spazio a pura trazione logica sul quale si aggregano e separano gli interessi di parti contrapposte, intercambiabili, in costante movimento tra il polo dell’indifferenza economica e quello della massimizzazione del ritorno economico atteso.

Hart e Holmostrom, premi Nobel in economia per le l’analisi economica dei contratti (Contract Theory) decretano l’insostenibilità delle aspirazioni di perfezione tanto dei contratti, che sono invece strutturalmente incompleti (Incomplete Contracts), che del mercato, che lungi dall’essere il fondale neutro di un interscambio asettico è, invece, un terreno tortuoso, polveroso, minato da inefficienze dove singole parti profondamente caratterizzate dalla loro identità, dalla loro specificità, si selezionano nella speranza, più o meno consapevole, più o meno razionalizzata ed organizzata, di creare un valore congiunto superiore a singole unità economiche che l’una parte si attende di ricevere quale conseguente del corretto adempimento dell’altra.

In tale nuova, più realistica, ricostruzione del mercato muta la funzione del contratto che diviene lo strumento più adatto per ricercare, di volta in volta, il “vaccino” alla nuova complessità radicale ovvero quella di una altrettanto radicale collaborazione. (Radical Collaboration, J. Tamm & J. Luett).

Se dal modello delle “Competition” si passa a quello della “Co-opetition”, quale modalità più efficace per gestione costante delle esigenze opposte adatta a gestire e capitalizzare sulla coincidenza degli opposti (Coincidentia Oppositorum, G. Teubner, Yale law School, 2004), anche il contratto subirà una mutazione strutturale e da organizzazione bipolare e contrapposta si trasforma in un’interfaccia organizzativa creatrice di una nuova realtà che non solo organizza ma trasforma gli interessi economici delle parti, modifica le originarie unità di utilità economica attesa e ne crea di nuove per il fatto stesso del suo protrarsi nel tempo.

All’interno di una funzione “mutata” del contratto, che diventa propulsore relazionale (Ian Macneil and The Realtional Theory of Contract, D. Campbell, Center for Legal Dynamics of Advanced Market Societies, 2004), la clausola di forza maggiore assume una rinnovata forza, decisamente più centrale e pregnante rispetto ad un suo “appiattimento” a mero “excursus procedurale” che mira a rilevare la condizione di impossibilità, della sua pronta comunicazione, della verifica del suo protrarsi oltre un periodo di concordata “sospensione”, per poi determinare rispettivamente, o la prosecuzione rimodulata del programma contrattuale oppure per decretarne la fine.

La clausola di forza maggiore sarà il nuovo caledoscopio, uno “stress test” attraverso il quale valutare la struttura del contratto e misurarne la resistenza in uno dei suoi gangli più delicati, quello che più subirà le ripercussioni della tensione economica causata da avvenimenti esterni non prevedibili.

La clausola di forza maggiore dovrà, anch’essa, mutare e trasformarsi da un acceleratore di conflittualità, quale sicuramente è nelle formulazioni attuali salvo irrilevanti sfumature e gradazioni, in uno strumento di positiva gestione delle criticità sopravvenute tendente all’obiettivo fondamentale di garantire la sopravvivenza della relazione commerciale.

Le parti potranno, ad esempio, elaborare un “quadrante” della gestione del rischio non statico ma variabile, dinamico, che a livello latitudinale tracci le variazioni di prevedibilità degli eventi ed a livello longitudinale la forza dell’impatto dirompente delle diverse classi di rischio.

Per ogni quadrante di rischio le parti potranno elaborare, da subito, una serie di meccanismi di reazione e contenimento di tali occorrenze.

Oltra alla schematizzazione di un “action plan” condiviso sarà fondamentale la strutturazione, vincolante e condivisa, di una modalità di comunicazione che sia aderente alla problematica affrontata iniziando dalla determinazione dei soggetti deputati ad interagire e cercando sempre di mantenere il livello della soluzione il più vicino possibile alla fonte del problema.

Dalle operations si risalirà ad un joint operations commettee per poi arrivare, infine, a livello di board disputes composto dai vertici delle società coinvolte.

Un processo così strutturato, oltre che garantire la valutazione migliore del problema sul tavolo, genera una tensione “positiva” opposta all’escalation insita nella strutturazione classica della clausola di FM che conduce, subito, le parti ad incanalarsi nel “silos” mentale, nella “tunnel vision” della protezione dei propri interessi, a volte veri ed altre volte colorati, di un pressoché inevitabile opportunismo.

Tale approccio metodologico e le pratiche elaborazioni del medesimo saranno ancor più fondamentali per la gestione delle criticità dei network industriali integrati che, nella migliore tradizione italiana (sempre così abile nell’innovare i processi e sempre così refrattaria a volerne massimizzare il valore regolandoli e regimentandoli), vanno sotto il nome di distretti.

Una rinnovata visione economica, capace tanto di strutturare gli strumenti tecnici che facilitano la creazione di nuovo valore condiviso settando i criteri di una adeguata ripartizione, quanto di gestire le complessità e le incertezze di uno scenario economico che nel dopo Covid saranno ancora più radicali, diventa un imperativo non demandabile.

Dott. Marco Gianni

Assistente alla Cattedra di
Finanza Aziendale, Prof. G. Palomba
La Sapienza, Roma
(newsflow manager & data analyst)