E’ il 27 ottobre. Siamo a Roma. E’ il 1481 per l’esattezza. Non conosciamo bene i dettagli della scena ma ce li possiamo immaginare. Un palazzo vicino al Vaticano, cinque personaggi intorno ad un tavolo, quattro da un lato e uno dall’altro, le teste chine, lo sguardo attento, fisso su un foglio che traccia le linee di quella che diventerà una delle più grandi espressioni artistiche del genere umano.

Cosimo Di Lorenzo Filippo Rosselli, Alessandro Mariani, (Botticelli), Domenico di Tommaso Corradi (Ghirlandaio) e Pietro Cristofano da Perugia (il Perugino) da una parte e, Giovanni Pietro de Dolci, supervisore dei lavori del Palazzo Apostolico dall’altra, discutono di termini di consegna dell’opera, penali, di diligente condotta professionale, compensi e garanzie, tutte personali!.

I discorsi sono serrati, le parole decise e la tensione alta; si discute la committenza per la Cappella Sistina, da affrescare con “scene del Vecchio Testamento, dalla cima dell’altare in giù…”.

Si raggiunge l’accordo, iniziano i lavori, nulla viene menzionato o stipulato in riferimento all’ossequioso rispetto dei criteri formali che l’opera dovrà presentare.

Il “vulnus” della regolamentazione contrattuale non passa inosservato. Come combinare la garanzia di una libera e piena espressione del genio artistico degli appaltatori, presupposto sia della loro nomina, che del successo della futura opera, con la necessità di un “formal approval”, di un “sign-off” da parte dell’autorità pontificia? Rimettere tutto al giudizio di un solo uomo? Impossibile!

L’autorità arbitrale di sei esperti offre maggiori garanzie. Non sappiamo se il lodo, l”award” fosse definitivamente binding oppure appellabile ma l’indice di consapevolezza giuridica e di business savvy che si realizzò il 17 febbraio 1472, data dell’addendum contrattuale, sono degne dell’oggetto che andavano a regolamentare. La realizzazione della Cappella Sistina appunto.

Fast forward. New York 1937. Wolff è un ritrattista professionale che si incarica di realizzare un ritratto del defunto Mr. Smith, magnate della Smith Oil&Refining Company.

La fama di Wolff è ben meritata. Gli eredi della dinastia apprezzano a tal punto il ritratto del caro estinto che incaricano l’artista di realizzarne un secondo. Questa volta, però, le cose non vanno “just as smoothly”.

La seconda figura non trasmette quella tonica risolutezza di spirito che traspariva, quasi contagiosa, dal primo ritratto. Gli occhi, la fronte, i vestiti, tutto è fuori tono, niente ricorda il “vecchio” Smith. Wolff modifica e rimodifica il dipinto ma non si può recuperare un’opera nata male.

Gli eredi rifiutano il pagamento del secondo ritratto. Wolff li porta in giudizio. Il secondo ritratto, sostiene l’artista, non era qualitativamente così diverso dal primo. Gli eredi avrebbero dovuto riconoscerlo, apprezzarlo e, quindi, pagarlo. Sebbene l’artista si fosse impegnato a eseguire un’opera che fosse pienamente soddisfacente (to the entire satisfaction) per il committente questo doveva pur sempre esercitare il proprio “arbitrio” nei limiti della buona fede e del “fair dealing”.

Questo è un principio generale, dice Wolff. Ogni qual volta una parte abbia il potere di determinare in maniera autonoma il contenuto dell’obbligazione dell’altra lo deve fare in buona fede, nei limiti della ragionevolezza, pena il trovarsi in presenza di un contratto nullo, di uno scambio di promesse “illusorio” e perciò non vincolante per le parti.

“Implied terms, fair dealing, entire satisfection clause” da un lato e, piena determinazione e rispetto della volontà delle parti, dall’altro.

Dove porre il segno, il limite di un “abuso” di autonomia senza rischiare di travalicare una volontà pattizia chiaramente espressa, concordata ed accettata, per eccesso di protezionismo e spasmodica ricerca di una oggettiva razionalità giuridica?

Fast forward. California, Corte Superiore di Los Angeles. La Third Story Production cede alla Warner Communications i diritti di pubblicare e, in generale, utilizzare come vuole il prodotto del genio musicale di Tom Waits. Ma anche, se cosi Warner decidesse, di lasciare marcire in qualche magazzino pezzi come On the Nickel, Jitterburg Boy e Ruby’s arms (dall’Album Heartattack and Wine, a 7,99 Euro on I-tunes Store). Third Story, che si vuol vedere riconoscere le sue royalties musicali da Warner non ci sta e, come Wolff, porta le carte in tribunale accusando il cessionario dei diritti del buon Tom di agire in violazione dei principi, immanenti, del fair dealing e buona fede.

La Corte, rifacendosi ad uno dei precedenti fondamentali sulla questione “Carma Developers vs. Marathon Develppers California” cosi statuisce: “ Non siamo a conoscenza di alcun precedente ove venga statuito che il principio generale di buona fede e correttezza contrattuale “fair dealing”, possa essere interpretato in maniera tale da proibire ad una parte del contratto di fare quello che il contratto le da il perfetto e pieno diritto di fare; una condizione giuridica implicata, immanente all’ordinamento, come quella della buona fede, non potrà mai, in nessun caso, sovvertirete una espressa e chiara volontà contraria delle parti qualora non vi sia dubbio alcuno, come nel caso di specie, in relazione alla loro effettiva volontà”, ed ancora “nessuna corte può arrogarsi il diritto di poter decidere al posto delle parti e di sapere quello che era o sarebbe stato meglio per loro quando queste lo hanno espresso chiaramente ed inequivocabilmente”.

Il nostro ritrattista si era impegnato a realizzar un’opera che fosse pianamente soddisfacente per il committente, rimettendo nelle mani di questo il solo ed unico parametro di valutazione della correttezza dell’output artistico.

Nessuno, nemmeno la Corte, si potrà sostituire a quel giudizio di personale valutazione che non potrà essere in alcun modo né sovvertito né inficiato da criteri di ragionevolezza proposti quali scivoloso viatico per rimpiazzare, ex post, un sentiero ben tracciato e delineato da due parti contrattuali capaci di arrivare a perfezionare un accordo vincolante e per nulla “illusory”.

Base del reasoning di cui sopra è, però, sempre e comunque la buona fede che deve informare di sé anche il giudizio soggettivo del “si mi piace, no, non mi piace”.

Ricercare e determinare positivamente gli indici indicatori di un parametro di oggettività giuridica, come quello della buona fede, nei meandri della soggettività umana alla quale è stato, scientemente ed inequivocabilmente, attribuito il ruolo di “solo arbitro” della correttezza o veridicità di un “si mi piace o, no non mi piace” imporrebbe di poter disporre di un panel di esperti che stanno alla psicanalisi come il Ghirlandaio sta alla pittura. Improbabile.

Il task diventa più realizzabile se si adotta una ricerca di prova per negativo, ovvero, di indici che facciano emergere un oggettiva ed innegabile male fede nell’esercizio di quella discrezionalità estetica che, vista in positivo, non può avere limiti né essere sottoposta ad un Voight-Kampff test.

Hollywood. Clint Eastwood, o meglio la sua ex compagna, Sondra Locke ci vengono in prezioso soccorso. Il set è quello del Texano dagli occhi di ghiaccio; la Locke e Eastwood si conoscono e la relazione professionale diventa personale. Per vent’anni, quasi, tutto ben ma nel 1990 Clint, evidentemente grande fan del primo Terminator, decide di “terminare” la relazione.

La Locke, non ci sta e parte col giudizio.

Si raggiunge un accordo transattivo che tra i termini prevede un ruolo del buon Clint come facilitatore di un “deal” tra la Locke e la Warner.

L’attrice/regista, a fronte di una “consideration” di 250.000 dollari all’anno si impegnava con una clausola di “first refusal” nei confronti della Warner in relazione a tutti i progetti cinematografici che avesse voluto sviluppare. La Warner non si assumeva nessun obbligo di procedere con la realizzazione di alcun progetto proposto dalla Locke se non a quello di “valutarne la fattibilità in buona fede”.

Clint aveva, nel frattempo, chiuso un secondo, e segreto, “gentlement agreement” con il managing director della Warner. L’accordo prevedeva che la Warner avrebbe, sempre e comunque “cassato” qualsiasi proposta venisse presentata dalla Locke che riuscì a provare “per tabulas” tale circostanza e dimostrare, conseguentemente, l’intento fraudolento della Warner.

Nessun direttore esecutivo della Warner ha mai valutato, seriamente, in buona fede, in aderenza ai principi del fair dealing, i progetti della Loke che sono passati dalla scrivania al cestino  in una spazio temporale infinitesimale.

La corte sostiene la posizione della Locke e condanna Warner a risarcimento dei danni per aver impedito all’attrice ogni possibilità di sviluppo professionale e di carriera. Ecco che, se vista al negativo, la buona fede soggettiva, o meglio la sua mancanza, può ben essere sussunta nella sfera giuridica e non solo in quella della ricerca psico-analitica.

Wrap up. Le clausole di gradimento soggettivo, chiaramente e validamente stipulate in un contratto che commissioni la realizzazione di un’opera d’arte, un ritratto o quale che sia il prodotto dell’espressione artistica, sono perfettamente valide e “binding” tra le parti.

Il committente è il solo ed unico titolare del suo proprio apprezzamento, non imbrigliabile in nessuna categoria del “dover essere” o di una più o meno marcata e riconoscibile aderenza ad una supposta “oggettività estetica”. Qui solo l’animo, il senso estetico e l’intima soddisfazione del committente rilevano.

I precedenti giurisprudenziali (carma developers e mattei primi fra tutti) parlano chiaro.

La buona fede e il fair dealing sono si principi immanenti al diritto contrattuale, ma non possono essere valorizzati dal giudice competente al punto da annullare una volontà pattizia chiaramente espressa.

La buona fede, anche soggettiva, deve essere comunque tale. La prova, in mancanza di elementi esterni che ne facciano legittimamente presumere la mancanza, sarà di fatto impossibile.

Lunga vita al riconoscimento pieno ed assoluto della volontà ed autonomia contrattuale delle parti, alla libera espressione del genio artistico e della piena protezione dei criteri di valutazione, soggettivi e personali, di chi quel genio incarica contrattualmente.

La limitazione del ruolo della soggettività estetica resta nelle mani di chi  redige il contratto; gli strumenti per quadrare il cerchio tra la libera e piena espressione del valore e della creatività artistica, da un lato, ed una valutazione “oggettiva” dell’estetica del resto non mancano.

Nel 1482, infatti, a Roma qualcuno già aveva trovato la soluzione.