Si è dimostrato interessante il caso posto all’attenzione del Tribunale di Venezia (14 maggio 2009 n. 9234): Tizio chiedeva la separazione giudiziale dalla moglie Caia. Quest’ultima chiedeva l’addebito della separazione al marito a causa della sua condotta evidentemente contraria ai doveri nascenti dal matrimonio, per avere da tempo intrattenuto una relazione extraconiugale. Caia chiedeva inoltre, nella domanda riconvenzionale la condanna del marito al risarcimento del danno esistenziale, in quanto la condotta di questo protrattasi per anni, oltre che fonte di turbamento psichico, deve considerarsi gravemente lesiva dei diritti della personalità: in particolare alla libera estrinsecazione della personalità ed alla qualità della vita.
Il Giudice ha dato conto del superamento della divisione tra responsabilità civile e diritto di famiglia da parte sia della giurisprudenza di merito (Trib. Monza 5/11/2004, Trib. Milano 24/9/2002-4/6/2002, Trib. Firenze 13/6/2000) sia di legittimità (Cass. 10/5/2005).
Si ritiene che ai fini del riscontro di una responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c. a carico del coniuge inadempiente ai doveri coniugali , il giudice deve accertare:
. la gravità obiettiva della condotta assunta dall’agente in violazione di uno o più dei doveri nascenti dal matrimonio, pur valutando comparativamente il comportamento di entrambi i coniugi nel contesto familiare.
. l’esistenza di un danno oggettivo conseguente a carico dell’altro coniuge e la sua riconducibilità in sede eziologica e non invece alla crisi coniugale in quanto tale ma alla condotta lesiva dell’agente, in quanto posta in essere in grave violazione di uno o più doveri del coniuge.
La giurisprudenza afferma che non ogni violazione degli obblighi derivanti dal matrimonio può costituire fonte di un danno risarcibile in via aquiliana , né può esserlo il mero addebito della separazione, altrimenti verrebbe stravolta la funzione tipica della responsabilità civile quale strumento volto a riallocare le esternalità negative anche in un’ottica di deterrenza adeguata.
L’addebito della separazione, preso a sé, non è fonte di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., determinando al più, se ci sono le circostanze previste dalla legge, solo il diritto del coniuge non colpevole al mantenimento (così Cass. 26/5/1995 n. 5866). Invece si può configurare la risarcibilità “di danni ulteriori” solo se i fatti che hanno dato luogo all’addebito integrano gli estremi dell’illecito ipotizzato dalla clausola generale di responsabilità ex 2043 c.c..
Il Giudice del caso all’attenzione ha affermato che al fine di risarcire il danno aquiliano per verificata lesione endo-familiare occorre vagliare in concreto:
– Se la condotta assunta da uno di essi in violazione dei doveri nascenti dal matrimonio sia innanzitutto imputabile al suo autore, in quanto sorretta da dolo o colpa;
– Se questa sia in concreto lesiva di una posizione soggettiva giuridicamente tutelata dell’altro e produttiva di danno perciò ingiusto;
– Se tra la condotta stessa ed il danno accertato in effetti un nesso di causalità giuridicamente apprezzabile;
Nel caso di specie, il Giudice ha affermato che il danno lamentato sussiste ma non si caratterizza esclusivamente sulla violazione dell’obbligo di fedeltà : ciò che costituisce ingiustizia costituzionale tipica dell’illecito aquiliano è la lesione della dignità di Caia da parte del marito, il quale ha lasciato la casa coniugale solo a seguito del decesso dell’anziana madre, fino a quel momento accudita dalla moglie.
Caia nell’avanzare domanda per il risarcimento del danno esistenziale ha invocato l’attentato al diritto all’estrinsecazione personale ed alla qualità della vita ,compromessa infatti dalla modalità con cui si è verificato il fallimento della sua seconda unione, cui è conseguito un trauma psichico aggravato dal fallimento della precedente unione. Tale pregiudizio, qualificabile come esistenziale, prescinde dalla sola lesione della salute e tocca anche la lesione dei diritti della personalità.
Il Ctu ha determinato perdita della qualità della vita stimata al 15% di natura permanente, cui è associata, per il periodo antecedente, un deterioramento di carattere temporaneo di due anni.
Rilevato il pregiudizio il Tribunale si scontra con i postulati della S.U. 266972/2008 che subordinano la liquidazione del danno non patrimoniale alla sussistenza del danno alla salute. Secondo tale giudicante nel caso di specie il pregiudizio psichico non permette ex sé di racchiudere tutto il danno subito,che si sostanzia nel peggioramento della qualità della vita. Applicando quindi i principi affermati dalle SU, il giudicante ha affermato la differenza tra pregiudizio morale e quello esistenziale: “se al cospetto di un fatto illecito colposo lesivo della salute il profilo del pregiudizio morale può essere preso in considerazione come incremento percentuale della componente biologica, in presenza di forme di attentato dell’integrità morale connotate dall’agire deliberato è ben possibile apprezzare in modo autonomo detto pregiudizio, che nel caso di specie si è tradotto in una riduzione della sfera sessuale”.
Nelle ipotesi di adulterio e lesione della dignità il risarcimento non patrimoniale, ha significato diverso: non si reintegra il danno arrecato ma si concede al danneggiato un succedaneo alla lesione subita: il risarcimento non assume quindi funzione compensativa perché non serve a rimettere il creditore nella stessa condizione in cui si sarebbe trovato se il fatto non si fosse verificato (come accade per le lesioni di interessi patrimoniali) ma accanto al profilo satisfattivo per la perdita di utilità di carattere non patrimoniale viene sicuramente in rilievo un profilo sanzionatorio/deterrente. Attraverso il pagamento di un equivalente pecuniario il sistema cerca di disincentivare condotte lesive, cercando in tali vicende di stabilire un rapporto di proporzionalità.