La quinta sezione penale della Corte di Cassazione (con la pronuncia n. 3871.2017) ha stabilito che chi copia o si avvale comunque di “aiuti esterni” nello svolgimento della prova incorre nel reato di plagio letterario.

La vicenda trae origine dall’esame per la abilitazione alla professione di avvocato presso la sede distrettuale di Bari.

Alcuni candidati furono infatti colti in possesso di elaborati scritti (precedentemente svolti da esperti in materie giuridiche) che avevano consentito (ad almeno uno di essi) di superare la prova.

La circostanza aveva fatto scattare le indagini del caso all’esito delle quali erano finiti sotto accusa i componenti della commissione di esame nonché una dipendente della università.

Come noto la legge prevede che chiunque, in esami o concorsi per il conferimento di diplomi, lauree, titoli abilitativi alla professione ecc., presenti come propri elaborati che sono invece opera di altri soggetti, è punito con la reclusione da tre mesi a un anno (pena che non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito).

Nel caso di specie il Gip aveva ritenuto sussistente il solo reato di plagio letterario; di contrario avviso la Procura che riteneva dovesse invocarsi anche la violazione dell’art. 479 c.p. (falso ideologico).

La Cassazione districa la matassa e stabilisce che non si può parlare di falso ideologico bensì del più grave reato di plagio letterario previsto in occasione di esami e pubblici concorsi.

Secondo la Suprema Corte infatti la legge 474.1925 (plagio letterario) contempla sia la presentazione di un elaborato falso sia il conseguimento dell’abilitazione e si colloca come norma speciale (rispetto al reato di cui all’art. 479 c.p) a mente dell’art. 15 c.p.